Premessa
23 settembre 1944.
In un afoso pomeriggio di fine estate, appollaiati sul cassone di un camion traballante, fra sacchi di frumento, intraprendemmo un viaggio che per noi adolescenti aveva un sapore d’avventura: il passaggio da Bronte al Seminario maggiore di San Giovanni la Punta.
Era con me un compagno di scuola, che continuò ad esserlo fino alla fine degli studi, Giuseppe Portaro.
Il camion entrò rumorosamente nel cortile interrompendo per qualche momento l’animazione che vi regnava. Qualcuno ci aiutò a scendere e ci accompagnò nella stanza del vicerettore.
Nel tragitto, lungo un corridoio fiancheggiato da scaffali coi libri della biblioteca, vidi per la prima volta il Calendario Perpetuo Meccanico accanto all’imboccatura di una scala - solenne ed austero - silenziosamente allineato a vecchi volumi rilegati in cartapecora, col distacco e la dignità di un nobile decaduto.
Le settimane seguenti, tutte le volte che vi passavo vicino, mi soffermavo a guardarlo con sempre maggiore interesse, come per scrutare il suo mistero, sbalordito e indignato alla vista di qualche mio compagno che, eludendo la sorveglianza del prefettino, correva per far ruotare rapidamente le lancette, divertito dal rumore.
Dai più grandetti seppi che si trattava dell’opera giovanile di un certo Padre Franco da Biancavilla, morto 10 anni prima, il 18 settembre 1934; l’invenzione, risalente a quando aveva 18 anni, era stata presentata e premiata all’Esposizione Vaticana del 1888 e a quella di Parigi del 1900.
La vista di quel congegno e le frammentarie notizie fecero riemergere alla memoria la scena alla quale avevo assistito un anno prima, nel cortile del Piccolo Seminario di Bronte; si era in piena guerra e il libraio Sciavarrello, accompagnato da Don Tino, il tipografo del paese, chiedeva al rettore - Padre Salanitri - le indicazioni su come calcolare le fasi lunari e le feste mobili per poter stampare il calendario dell’anno seguente. Padre Salanitri spiegò che la cosa sarebbe stata possibile seguendo le istruzioni in latino contenute nelle prime pagine dei messali, ma in pratica l’operazione si presentava problematica per i notevoli calcoli ai quali si andava incontro.
L’idea di quei notevoli calcoli in me tredicenne suscitò un certo fascino, ma la cosa non ebbe alcun seguito poiché non avevo elementi da cui partire. Il mio interesse tornò ai relitti bellici sparsi per le campagne coi quali smanettavo e alla fabbricazione di fiammiferi - allora merce irreperibile - seguendo le indicazioni dello stesso Padre Salanitri e i consigli del farmacista Minissale.
L’osservazione del Calendario Perpetuo Meccanico mi ripropose il problema: a saperlo far funzionare tutto sarebbe risultato facile; fu così che il fugace interesse tornò ad emergere.
Si concretizzò maggiormente quando - in una delle settimanali visite alla piccola libreria del Seminario - trovai il volume scritto dallo stesso Padre Franco con la traduzione in tavole della sua invenzione; il libro era rimasto invenduto ed accanto alle poche copie integre ne erano stipate una certa quantità senza copertina, smerciate come carta da imballaggio.
Ne comprai una copia e mi misi alacremente a studiarla, fiero di poter stupire i miei compagni con la capacità acquisita nel calcolare giorni della settimana, fasi lunari e feste mobili per i vari anni.
Proseguendo la lettura mi colpirono particolarmente le “esternazioni”, così le chiameremmo ora, contenute in alcune note; la grande amarezza espressa dall’autore lasciava intravedere delusioni ed incomprensioni subite.
Alla luce di esse mi apparve più chiara l’aneddotica che si andava tramandando; si diceva, ad esempio, che l’invenzione era stata possibile per l’aiuto di Monsignor Caff, suo Mecenate; quando poi, alla morte di questi, Padre Franco chiese aiuto al Cardinale Francica Nava per altre invenzioni che aveva in mente, si sentì seccamente rispondere: «Inventate una macchina che stampi soldi!».
La mia fantasia di adolescente, che come tutti i coetanei si sentiva incompreso, ne fu eccitata; ne feci un mito e mi ripromisi di far giustizia rilanciando la sua invenzione e la sua immagine.
Chiesi ai superiori il permesso di studiare il funzionamento dell’apparato; malgrado la mancanza del fascicolo delle istruzioni - scritto nel 1900 in francese dall’inventore stesso in occasione della presentazione all’Esposizione Internazionale di Parigi - sulla scorta del volume con la riduzione in tavole, restaurai alla meglio le parti manomesse consentendone il funzionamento.
La riproduzione di quel monumentale congegno era difficilmente proponibile a causa dei costi elevati; nell’intento di poterlo rilanciare, progettai una semplificazione che potesse venire facilmente diffusa.
Spinto dal fascino e dal desiderio di emulazione del mio mito, mi prefissai l’obiettivo di realizzare tutto prima dei miei 18 anni.
Come punto di partenza tentai di ricostruire, mediante una serie di calcoli algebrici, i presupposti matematici attraverso i quali presumibilmente l’inventore era arrivato alla scoperta della periodicità del calendario e quindi alla meccanizzazione. Alla luce dei risultati ottenuti realizzai un prototipo in ottone, di piccole dimensioni, perfettamente funzionante. Con successive semplificazioni, ne attuai dei modelli in cartoncino che potevano essere realizzati in serie a basso costo, ma la mia scarsa attitudine commerciale fece sì che l’idea di un lancio in tal senso languisse.
In quel periodo sognavo tanto di diventare uno scienziato e di dover lottare contro il tempo per la realizzazione di qualcosa di importante; forse fu questo che contribuì ad orientare il mio interesse per la misura del tempo e mi portò ad occuparmi oltre che del calendario, anche di orologi. Fu infatti nello stesso periodo che - su invito del parroco Antonino Rubino - progettai e curai l’esecuzione dell’orologio per la facciata della chiesa del Rosario di Bronte.
Frattanto, come per qualsiasi adolescente che si rispetti, cominciarono le crisi esistenziali e gli interrogativi sul senso della vita. Emblematico fu un episodio fortuito che diede corpo alla crisi che andava maturando.
L’allora rettore del Seminario, Monsignor Francesco Pennisi, era stato insignito di una nuova onorificenza pontificia e noi chierici, sull’onda dell’euforia, pensammo di fargli stampare i biglietti da visita col nuovo titolo.
Mi recai presso una tipografia nelle vicinanze di Piazza Duomo dove il titolare, nel comporre il testo con caratteri mobili, si abbandonò ad uno sfogo parlando della situazione di miseria in cui si dibatteva:
- Le sembrerà strano - disse - che il proprietario di una tipografia parli di miseria. La verità è che le grosse industrie, utilizzando nuove invenzioni (si riferiva alla linotype), assorbono tutto il lavoro e a noi non restano che le briciole; chi pensa ormai a far stampare un libro da noi con la composizione manuale?
La comparsa di un bimbetto riccioluto in cima ad una scala di legno interna, che collegava la tipografia all’abitazione del titolare, rese la situazione più pregnante.
Quelle parole, quel bambino, ebbero per me il sapore di un messaggio: sono le nuove scoperte e il progresso tecnologico che miglioreranno la condizione umana?
Quanto a me, che senso avrebbe avuto il ideale religioso se avessi fatto lo scienziato e l’inventore? La storia enumerava tanti esempi illustri di religiosi cultori delle scienze, ma per me l’ideale religioso significava completa dedizione agli altri; era quella la via migliore per realizzare il mio ideale?
Domande del genere mi accompagnarono per tutta la durata dello studio della teologia e misero in crisi i sogni lungamente accarezzati nell’adolescenza.
Giunto alla fine degli studi di teologia si pose il problema dell’iscrizione alla facoltà di matematica e fisica. Mi mostrai perplesso e pensai di poter prima ampliare l’orizzonte approfondendo le discipline filosofiche. Fu così che mi trasferii a Roma all’Università Gregoriana.
Fra le varie materie ebbi modo di conoscere la psicologia, una valida alternativa che mi riempì di entusiasmo: potermi dedicare allo studio scientifico con una prospettiva di essere di aiuto alle persone in difficoltà, direttamente a loro, non con la generica mediazione del progresso scientifico.
Non avevo mai mostrato particolare interesse per l’aspetto liturgico del ministero sacerdotale, meno ancora avevo sognato di cantar messe, tanto, ero stonato come una campana rotta; quel nuovo campo mi avrebbe permesso di dedicarmi agli altri realizzando così tutti i miei sogni.
Conseguita la licenza in filosofia, abbandonai ogni velleità di fare lo scienziato e intrapresi a Lovanio, in Belgio, lo studio della psicologia che mi avrebbe poi accompagnato per la vita.
* * *
Gli anni passarono e un bel giorno Monsignor Carmelo Scalia mi chiese se avessi voluto occuparmi del restauro del Calendario Perpetuo Meccanico: accolsi con entusiasmo la proposta e chiesi che fosse trasportato nel mio studio per potervi lavorare con calma. I miei collaboratori sono ancora stupiti della rapidità e dello zelo con cui immediatamente mi dedicai a sgombrare una stanza, fino ad allora adibita a deposito ed attrezzarla al lavoro di restauro.
Per me fu come rivivere il periodo della mia adolescenza tormentata e sognante; ricordo l’emozione intensa nel momento in cui il congegno, per vari anni mitizzato, fu portato nella stanza predisposta, come se mi sentissi responsabile del mito ora affidato alle mie cure perché lo facessi rivivere.
* * *
A distanza di mezzo secolo, quando diciottenne rimisi in funzione il Calendario Perpetuo Meccanico di Padre Franco e presentai la mia realizzazione di una semplificazione che ne permettesse la diffusione, ripresento ora - col restauro di un’opera geniale - la figura di un uomo di grande ingegno e in appendice la ricostruzione della mia realizzazione di allora, perché il frutto della geniale invenzione di Padre Franco giunga alla portata di quanti ne sono interessati.
Quanto a me penso di saldare, con questo lavoro, il debito contratto verso il mio mito negli anni sognanti di una adolescenza ormai lontana.
Luigi Minìo