Parte terza - La trasmissione del messaggio
Parte terza
La trasmissione del messaggio
Tante cose ho imparato da voi uomini...
Ho imparato
che tutti quanti vogliono vivere
senza sapere che la vera felicità
sta nel come questa montagna è stata scalata
Gabriel Garcìa Marquez
Tutti vorremmo cercare
un comodo posto in paradiso …
… Gesù invitava a cercare un “posto”
o a tendervi operando per “il regno di Dio”?
Il sublime messaggio di Gesù di Nazareth
è giunto a noi filtrato dalle prime comunità cristiane
e dagli scritti a esse destinati.
I padri della Chiesa hanno elaborato la dottrina,
con un linguaggio consono
al pensiero e alla sensibilità del tempo.
Sinodi e concili hanno avallato
quanto era ritenuto dottrina consolidata.
Si è trattato di un procedimento necessario
per rendere comprensibili concetti
che superano la capacità di comprensione
della mente umana.
Il linguaggio, sacralizzato,
è rimasto invariato nei secoli.
Pur nel rispetto del contenuto,
l’evoluzione del pensiero e la mutata sensibilità,
in molti, destano oggi perplessità:
ciascuno le esprime nel modo a lui più consono.
“Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto nel mondo di più oscurantista, più compromesso, più falso, e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima, e quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure.”
Carlo Carretto,
(dal 1946 ai 1952 presidente nazionale della Gioventù Italiana di Azione Cattolica, poi religioso)
in Dio che viene, cap. X
Ogni struttura, dalle forme più elementari di vita alle civiltà più complesse, tende a mantenere il suo equilibrio.
Qualsiasi elemento nuovo, come qualsiasi forma d’originalità o di creatività, tende a turbarlo.
La struttura si difende con uno dei due possibili modi: rifiuto o creazione di un equilibrio superiore che inglobi i nuovi apporti.
La diffusione del messaggio evangelico ha provocato un profondo turbamento negli equilibri esistenti, sia negli ambienti giudaici, sia in quelli ellenistici.
A una iniziale reazione di rigetto, sfociata in ondate di persecuzioni, sono seguiti adattamenti con nuove forme di equilibri.
Quando il nuovo corso si è consolidato e ha avuto l'avallo ufficiale, l'ostilità prima subita si è trasformata in intolleranza per gli altri orientamenti religiosi; nel suo interno è subentrato un forte irrigidimento, motivato dalla preoccupazione di preservare la dottrina elaborata da qualsiasi ulteriore innovazione, anche nel modo di esprimerla.
In questi brevi cenni sulle origini della tradizione cristiana, non intendiamo impelagarci in disquisizioni di ordine storico o teologico. Ci proponiamo solo di illustrare alcuni elementi che potrebbero aver influito sulla sua formazione, alla luce di quanto già detto.
Tante prassi e tanti orientamenti in campo religioso sono sorti in epoche determinate, con l'influenza di motivi legati a quei tempi e di meccanismi psicologici ora meglio conosciuti.
Anticipando quanto vedremo in seguito, penso sia legittimo chiedersi se risponda alla sensibilità attuale mantenerli in modo acritico; siamo convinti che cercare di far luce e non inglobare tutto nell'insieme nebuloso della tradizione possa condurre il credente a una vita di fede più matura.
Oggi, col senno del dopo, inorridiamo leggendo descrizioni di torture inflitte - e allora giustificate - dai tribunali dell'inquisizione, a volte solo perché il malcapitato aveva avuto il torto di intuire concetti reputati in seguito validi.
Fra qualche secolo (o forse fra qualche decennio!) chi ci seguirà sarà inorridito per tante violenze di ordine psicologico, in nome della fede, oggi giustificate e sottilmente inflitte, senza che ce ne rendiamo conto.
Nell’esposizione che segue, inizieremo con alcune riflessioni sul rapporto tra scienza e fede. Passeremo, quindi, a considerazioni - sempre limitandoci al piano antropologico - su quello che potrebbe aver influito nella formazione della tradizione cristiana.
Scienza e fede: integrazione o conflitto?
Pensare all'influenza degli orientamenti di pensiero del tempo sulle origini del cristianesimo è contrario alla fede?
Felix qui potuit rerum cognoscere causas, (fortunato colui che ha potuto conoscere le cause delle cose), ci fa osservare Virgilio (Georgiche, II, 489) ed è quanto si propone ambiziosamente la scienza.
Si tratta di una felice ambizione; senza di essa non vi sarebbe progresso, ma tutto ha un limite.
In un passato - non del tutto passato! - vi era uno strano rapporto tra scienza e fede.
La scienza cercava spiegazioni ipotizzando plausibili nessi causali tra i fenomeni studiati e spavaldamente ipotizzava un futuro in cui tutto avrebbe trovato una spiegazione.
La cosiddetta fede stava in agguato, pronta a dare le sue spiegazioni su quello a cui la scienza non era ancora arrivata.
Se poi la scienza raggiungeva nuovi traguardi, la fede - obtorto collo e dopo tante remore - era costretta a retrocedere.
In pratica, la fede tendeva a occupare gli spazi che la scienza non riusciva a coprire.
Di certo, ne avrebbe sempre trovati!
Se bene intese, la scienza e la fede costituiscono due differenti modi di porsi di fronte alla realtà: la scienza cerca il concatenamento delle cause seconde, mentre la fede tenta di intuire la causa prima.
Parlare di conflitto significa semplicemente ipotizzare una reciproca e illegittima invasione di campi.
Inoltre, bisognerebbe chiarire cosa si intende per scienza.
La vera scienza è semplicemente un metodo di ricerca caratterizzato dal dubbio costante; non è costituita da dogmi, non dà nulla per definitivamente acquisito e non può andare al di là di quanto si può dedurre in quel momento e in quelle circostanze.
Che la scienza voglia indagare sui fattori connessi con le origini del cristianesimo e sulla sua rapida diffusione, non solo è legittimo, è anche doveroso.
Si potrebbero ipotizzare nessi possibili, ma si tratta di indagare sul concatenarsi delle cause seconde.
La fede ha come oggetto la causa prima che ha dato all'universo la potenzialità di evolversi, a tutti i livelli, includendo meccanismi di ordine sociologico e psicologico.
Si tratta solo di riflettere su come concepire questa causa prima: se un principio trascendente che possiamo solo intuire o una divinità antropomorfizzata, tanto cara alla tradizione popolare (e non solo!).
Volendo semplificare, parlando di fede, possiamo evidenziare tre stadi: il portatore del messaggio, il teologo che lo rende concreto in formule e norme di vita e il fedele cui spetta osservare le norme proposte.
Se si perde di vista il messaggio originario, può accadere che il fedele si limiti a chiedere norme pratiche, meglio se rituali da compiere, per sentirsi in regola.
Come contropartita, è sollecito a scodellare alla divinità le sue richieste, pronto a dolersi e rivoltarsi contro se pensa che non siano puntualmente esaudite.
* * *
A pensarci bene, la confusione ingenerata è connessa con un problema di fondo, il concetto centrale dell’oggetto della fede che può essere espresso con tre modalità differenti:
1. Nella tradizione biblica tutto, dai fenomeni atmosferici agli avvenimenti sociali, è espressione dell’intervento diretto e discrezionale di un Dio antropomorfizzato.
È consequenziale il costante sforzo per volerselo ingraziare e l’accorata preghiera per piegare la sua volontà ad agire in proprio favore e per la soddisfazione dei propri bisogni immediati; la lettura di molti salmi ne mostra un chiaro esempio.
È questo il modo che ci è stato tramandato e che costituisce la base del devozionismo popolare.
2. Con l’evoluzione del pensiero e la ricerca dei nessi causali, si parla di cause seconde e di piano della Provvidenza che ha tracciato leggi stabili valide per tutto l’universo, ivi compresi gli avvenimenti umani, a livello sociale e individuale.
La preghiera diventa meditazione su come meglio adeguarsi a questo piano, concretizzato mirabilmente da Gesù nella legge dell’amore reciproco; più che presentare a Dio la lista dei propri bisogni, diventa una riflessione sulla preghiera da lui insegnata, nella quale chiediamo: Sia fatta la tua volontà.
3. Coloro che, pur avendo raggiunto un certo livello di maturità, intesa come capacità di aprirsi agli altri, sono allergici a qualsiasi linguaggio che faccia riferimento alla divinità, preferiscono esprimere gli stessi concetti parlando di leggi naturali e di rispetto per la natura nel senso più ampio.
Solo gli immaturi, ripiegati sul loro egocentrismo infantile, tendono a eludere il problema restringendo l’orizzonte al proprio interesse del momento, anche se a scapito degli altri.
Non si tratta solo di modalità semantiche; comportano concezioni profondamente diverse con implicazioni a livello pratico.
Una delle conseguenze della prima concezione, consacrata dalla tradizione, è costituita dalle crisi di fede che spesso ne seguono: se esiste un Dio buono, perché permette tanti mali?
Nelle concezioni alternative, il male è visto come un rifiuto di adeguarsi al piano della Provvidenza - o la violazione delle leggi naturali - che si traduce in un danno verso se stessi e verso gli altri; la conseguenza dovrebbe essere la spinta a operare per il raggiungimento di una concezione di vita più matura e di un rapporto con gli altri più adeguato, caratterizzato dalla benevolenza, a tutti i livelli. Non è nel potere del singolo cambiare il mondo, ma ciascuno è chiamato a fare la propria parte, iniziando da quello che è in suo potere: migliorare il proprio comportamento.
Non è forse fuor di luogo ricordare il proverbio spagnolo, citato da Papa Francesco, che reputiamo valido a un raggio più vasto: Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, la natura mai.
Più che a un Dio che tiene la contabilità delle singole azioni umane e a sua discrezione premia o punisce, potemmo pensare a una natura che si ribella di fronte alle trasgressioni, siano esse contro l’ambiente o contro i propri simili, e in modo inflessibile si ritorce contro l’umanità o contro gli stessi individui, dal livello climatico alle sofferenze fisiche o morali.
Parlando di pentimento e di perdono dei peccati, più che a una sterile recriminazione di un passato che non è in nostro potere cambiare, potremmo pensare a una conversione che porti a un mutamento di rotta.
Si tratta dei concetti misteriosi e complessi toccati o semplicemente sfiorati nelle pagine di questo scritto.
1. Le prime comunità cristiane
Potremmo paragonare la tradizione cristiana a un grande fiume: scaturisce da una sorgente ed è alimentato da affluenti che spesso, nel loro percorso, attraversano centri abitati, trascinando tutto quello che in essi confluisce. Chi vuole dissetarsi con acqua pura va alla sorgente, non alla foce.
Alla luce delle considerazioni fatte nei capitoli precedenti, accenneremo alle influenze che possono aver avuto, sulla formazione della tradizione cristiana, le radici ebraiche e il pensiero del mondo ellenistico in cui il cristianesimo si è rapidamente diffuso.
Da quanto abbiamo osservato, la tendenza a modellare e integrare gli elementi nuovi con le concezioni consolidate nel proprio patrimonio mentale - o con ciò che appare in quel momento logico alla luce di esso - è un meccanismo spontaneo che caratterizza la conoscenza umana.
È quanto, pensiamo, sia avvenuto nella formazione della tradizione cristiana.
Se, da un canto, possiamo considerare tutto ciò legittimo, poiché l'insegnamento di Gesù ha solo tracciato linee programmatiche destinate a essere sviluppate dalla tradizione e dal dibattito teologico, d'altro canto si potrebbero profilare, nelle proposte di innovazioni, rischi di comode alterazioni del messaggio.
Si tratta del serio problema che ha coinvolto da sempre la cristianità: il perenne conflitto tra conservatorismo e progressismo.
È un argomento che affronteremo in seguito, pur consapevoli che non siamo certo noi a voler dire l'ultima parola.
Le influenze esterne nella tradizione cristiana
I primi cristiani hanno recepito il messaggio armonizzandolo con le concezioni del tempo.
Andando oltre i due orientamenti, il giudeo-cristianesimo e l’etno-cristianesimo che si delinearono nella Chiesa nascente, testimoniato dallo scontro tra Paolo di Tarso e i giudeizzanti, ci soffermeremo brevemente sui due aspetti:
Le radici ebraiche
Rabbī Yešūāh di Nazareth era un ebreo e nella sua predicazione si rivolgeva a ebrei. Era logico che nel suo messaggio, sia pure innovativo, usasse un linguaggio a loro familiare; è anche comprensibile che gli ascoltatori, da parte loro, tendessero ulteriormente ad adattarlo al loro modo di pensare.
I primi seguaci di Gesù erano anch’essi ebrei; era quindi ovvio che filtrassero il suo insegnamento attraverso le loro convinzioni e lo tramandassero con le loro conseguenti rielaborazioni.
Inoltre, la prima diffusione del messaggio, fuori dalla Palestina, fu prevalentemente tra gli ebrei della diaspora, numerosi nel mondo allora conosciuto.
Per una maggiore comprensione, sebbene ne abbiamo già parlato in un capitolo precedente, riflettiamo su alcuni aspetti particolari - visti più da vicino - del modo di pensare degli ebrei di allora.
Divinità antropomorfizzata
Gli ebrei professavano un puro monoteismo ed era loro rigorosamente vietato farsi una qualsiasi rappresentazione della divinità. Per loro, rappresentazione significava costruire un'immagine dinanzi alla quale prostrarsi in adorazione, a somiglianza di quanto facevano i popoli vicini.
Comprensibilmente, il divieto non impediva che - per una necessità insita nella mente umana - se ne facessero un'idea fortemente antropomorfizzata; il bisogno di concretezza faceva attribuire alla divinità caratteristiche, sentimenti e passioni umane, come la bontà, la compassione, l'ira, lo sdegno, il compiacimento, la gelosia, ...
Nei testi sacri, avevano fatto riposare Dio al settimo giorno, dopo la fatica della creazione; gli facevano cavalcare cherubini per discendere dal cielo, lo facevano sbuffare, gridare come una partoriente, lo percepivano severo nel punire le colpe e attento verso i pentimenti. Gli attribuivano un legame, sancito da giuramento, con la famiglia di Giacobbe; lo facevano interloquire costantemente col suo popolo, oscillando tra il mendicare la loro devozione e l'imporla col ricatto, ....
Ovviamente, si tratta d'immagini ma, nel modo di pensare comune, il confine tra la coscienza che si tratti di immagini e la confusione con la realtà è piuttosto labile.
Da riflettere su un dettaglio, forse non insignificante: l'universo era allora circoscritto alle terre in quel tempo conosciute: un disco piatto col baricentro sul monte Sion e i luminari - di modeste dimensioni - che si muovevano in alto. Dio non aveva altro da fare che guardare dall’alto ed era relativamente facile attribuirgli il controllo fisico di quanto accadeva. Sarebbe più complicata, oggi, una simile rappresentazione di Dio e nello stesso tempo attribuirgli la gestione di mondi infinitamente lontani; farlo volare, in groppa a cherubini, da una galassia all'altra, distanti migliaia di anni luce!
Nello stesso tempo, siamo oggi più consapevoli che la divinità non può essere soggetta a stati emotivi, ... eppure ...!
Divinità prevalentemente nazionale
In modo alterno Yahweh era un dio universale e il dio locale, protettore del popolo d'Israele, in favore del quale non esitava a commettere ingiustizie: espropriare i legittimi proprietari dei loro territori e imporre - come abbiamo visto - anche il genocidio.
Come contropartita della protezione accordata, egli richiedeva, oltre al culto, la scrupolosa osservanza delle sue leggi, pena esemplari castighi.
Quanto agli altri, seguaci di divinità rivali, era legittimo che fossero osteggiati o anche annientati.
Tutto questo sembrerebbe oggi anacronistico, ... eppure ...!
Gesù di Nazareth ha abbattuto le frontiere: Dio è il Dio di tutti.
I suoi seguaci hanno, però, alzato altri steccati: è vero che Dio è il Dio di tutti, ma la rivelazione l'ha riservata solo a noi, il monopolio della salvezza l'ha affidato al nostro apparato burocratico e lo Spirito Santo continua a ispirare solo la nostra gerarchia!
Divinità da placare con i sacrifici e l'espiazione
Coerentemente ai modelli sociali del tempo, Yahweh era visto come l'autorità suprema di fronte alla quale bisogna strisciare per ingraziarsela e allontanare i castighi per le immancabili trasgressioni, anche involontarie.
Nello stesso tempo la situazione sociale faceva sentire l’estremo bisogno di protezione. I destini degli individui e dei popoli erano in balia della forza e della prepotenza.
L’insediamento degli ebrei in Palestina era avvenuto mediante l’occupazione e la violenza; a loro volta, erano stati vittima di occupazioni, di violenze e di deportazioni. A nulla poteva servire il diritto; era normale che vivessero nel terrore per quanto poteva loro succedere e che questo terrore pervadesse il loro modo di pensare.
L’unica via di salvezza era sperare nella protezione di qualcuno più forte: la loro divinità giudicata onnipotente.
Ne seguiva un duplice atteggiamento: non rendersela nemica provocando la sua ira e i suoi castighi per le trasgressioni e implorare la protezione dai nemici, dai quali sarebbe stato impossibile difendersi per altre vie. Era consequenziale l'enfatizzazione del culto e la costruzione di un tempio sontuoso come sua dimora, anche se i profeti avevano avanzato riserve.
Da lui e solo da lui ci si attendeva protezione e aiuto in tutte le avversità, fossero naturali o dovute a nemici personali o causate da invasori della loro nazione; tutti erano reputati empi e suoi nemici, come a volergli dire che combatterli era anche un suo interesse.
A somiglianza dei popoli vicini, erano in uso sacrifici per ingraziarselo o per espiare i peccati. Nei sacrifici di animali, il sangue, considerato veicolo della vita e quindi sacro, era raccolto dai celebranti e sparso attorno all'altare; da questo gesto deriva l'espressione spargimento di sangue.
Fra i tanti, possiamo accennare a tre tipi:
· L’olocausto (termine derivato dal greco: ὅλος intero e καυστός bruciato), sacrificio animale in cui la vittima era interamente bruciata. Era considerato il più adatto per esprimere la lode e la devozione.
· Il sacrificio di comunione, che trova riscontro nelle epulae sacrificales del mondo greco-romano; in esso solo una parte era bruciata in onore della divinità, mentre il resto era consumato dai partecipanti per condividere il pasto con la divinità stessa e con i compagni di fede.
· Il sacrificio di espiazione e di riparazione, che costituiva come una sostituzione penale: uno paga al posto di un altro per rendere l'altro giustificato. L'animale sacrificato era visto come una parte della propria sfera personale o della comunità; in alcune circostanze, ponendo la mano sulla testa della vittima si trasferivano su di essa i propri peccati e le impurità.
Il bisogno di sentirsi puri per non esporsi ai castighi divini era un assillo del popolo ebraico.
Come abbiamo visto, i profeti mostravano poco entusiasmo per questi riti che sostituivano, di fatto, una profonda riflessione sul proprio comportamento.
Il messaggio profetico, ribadito poi dall'insegnamento di Gesù, puntava sull'invito al cambiamento di vita nel futuro, più che sull'espiazione di colpe passate, ... eppure ...!
L'apporto della cultura ellenistica
Il messaggio di Gesù si diffuse nel mondo ellenistico, dominato da tante contraddizioni.
In origine le mitologie greca e romana erano imperniate su un rigido politeismo; alla pletora delle divinità già esistenti, si aggiungevano quelle delle province annesse all'Impero.
Sotto l'influenza delle varie correnti filosofiche, nei primi secoli dell'era cristiana, negli ambienti culturali più evoluti s’intuiva l’esigenza di una divinità somma alla quale tutte le altre fossero riconducibili; spesso s'ipotizzava un dio supremo che assumeva aspetti o epiteti particolari o che tutte le divinità fossero sue emanazioni.
Era questo il motivo di quel certo fascino suscitato in molti dal monoteismo ebraico; nello stesso tempo questo nuovo modo di pensare costituiva un terreno fertile per la diffusione del messaggio cristiano.
Frattanto, in campo etico, le tradizioni misteriche avevano creato una spiccata sensibilità ai valori di ordine morale.
Erano dottrine riservate agli iniziati, ma il loro fermento tendeva a permeare ambienti più vasti.
In queste tradizioni, emergono molte analogie col cristianesimo nascente.
Connessione tra misticismo
e cristianesimo nascente
Superata la pittoresca coreografia legata alla mitologia del tempo, non è difficile scorgere le profonde analogie tra il cristianesimo nascente e le convinzioni diffuse negli ambienti culturali del primo secolo.
Tenteremo di focalizzare alcuni punti di contatto, per passare poi alle ipotesi di spiegazioni.
Analogie presenti
Concetti basilari del cristianesimo nascente sono presenti in vari miti, sia pure in forme diverse.
Le origini della divinità che s'incarna sono sempre misteriose; quando nasce da una donna, si tratta di una vergine, a indicare che la vera paternità è divina.
Così avviene, a esempio, per Horus in una variante del mito di Osiride, per Attis in Frigia, per Mitra che - secondo una delle leggende - nasce da Anahita, la vergine madre e nell’America precolombiana per Bacab, nato dalla vergine Chiribirias.
Sono presenti divinità uccise dalle forze del male e gloriosamente risorte o divinità che si sacrificano per venire incontro agli uomini.
Osiride in Egitto, Tammuz a Babilonia, Attis in Asia Minore e Dioniso in Grecia, costituiscono solo degli esempi. Come la divinità, pur essendo trascinata nella morte, trionfa su di essa, allo stesso modo i suoi seguaci possono sperare in una vita immortale. La condizione è il retto comportamento, tracciato dai vari culti, con una convergenza sorprendente.
È frequente l'immagine di un demiurgo che interviene nella creazione, come pure il mito della venuta o l’attesa di un essere di natura divina, per la salvezza dell’umanità; il riferimento più chiaro è il citato Poimandres della tradizione ermetica, molto vicino al Logos di cui parla l'evangelista Giovanni.
Era ovvia la tendenza a tradurre la figura e l'insegnamento di Gesù alla luce di questi modelli che permeavano il modo di pensare, specialmente nei livelli culturali più evoluti.
Anche la data convenzionale del 25 dicembre, scelta nella tradizione cristiana per celebrare la nascita di Gesù, trova numerosi riscontri in altre tradizioni religiose, specialmente nei culti solari o con qualche connessione col sole.
La notte del solstizio d'inverno è la più lunga dell'anno; da quei giorni la durata della luce tende ad aumentare e per questo associavano tale data al giorno di nascita o di festeggiamento di entità divine.
Ovviamente, si tratta di un’ipotesi tendente a spiegare la coincidenza della data; non manca chi ne sostiene il fondamento storico. Ad esempio, alcuni studiosi, più di recente, partendo da un’interpretazione letterale dei racconti del vangelo di Luca sugli annunzi di angeli a Maria e a Zaccaria, sono propensi a prendere in considerazione la storicità della data della nascita di Gesù fissata dalla tradizione. In particolare, Luca precisa che Zaccaria era sacerdote della classe di Abia; dal Libro dei Giubilei, rinvenuto a metà dello scorso secolo nelle grotte di Qumrân, è possibile ricostruire i turni e le date di servizio al Tempio delle ventiquattro classi sacerdotali ai tempi di Gesù; da qui la data approssimativa della visione di Zaccaria e del conseguente concepimento di Giovanni Battista, avvenuto sei mesi prima di quello di Gesù.
Si tratta di disquisizioni che di certo non incidono ai fini della fede.
A livello di riti e di atti di culto, possiamo notare come le pratiche cristiane trovano riscontri in altri culti, specie nel mitraismo. L’agape fraterna, simbolo della fusione mistica con la divinità, come una teofagia simboleggiata nel banchetto, trova forse il riferimento più antico nel mito di Osiride; nel mitraismo diviene elemento centrale del culto, proprio come nel cristianesimo. I luoghi d'incontro, le catacombe, fanno pensare ai mitrei, luoghi di culto sotterranei. Nel mitraismo, la gerarchia prevedeva sette livelli, fino ad arrivare ai patres, col compito di presiedere le riunioni; anche nel cristianesimo col tempo si formarono sette livelli, quattro ordini minori e tre maggiori, culminanti con i presbiteri, considerati patres.
Possiamo trovare altri riscontri in raffigurazioni iconografiche, come la corona di dodici stelle sul capo di Tammuz, presente anche nell’Apocalisse di Giovanni.
Volendo allargare il campo, possiamo scorgere accostamenti anche con tradizioni del tutto lontane da quelle conosciute nell’area mediterranea in quel tempo, sia pure in forme diverse; a esempio, una divinità che si sacrifica per venire incontro agli uomini.
Nell’induismo è il Purusha, il dio creatore-vittima che dallo smembramento del suo corpo dà origine al cosmo e agli esseri umani, distinti nelle diverse caste.
In alcune tribù indigene dell’America Settentrionale la Dea Madre, commossa dalla fame dei suoi figli, si auto sacrifica seminando le sue membra nella terra, per tornare in vita col raccolto.
Significato delle analogie
A una considerazione superficiale e riduttiva si potrebbe pensare a una derivazione o almeno a un'influenza reciproca fra le varie culture e poi sul cristianesimo nascente.
La diffusione degli stessi miti in culture molto lontane e senza alcun contatto fra loro esclude, però, che si tratti delle successive rielaborazioni di un modello originario.
Questa considerazione ha spinto alcuni a rispolverare il mito di un continente scomparso, l’Atlantide, di cui parla Platone nel Timeo e a connettervi le coincidenze rilevate.
Possiamo leggere queste coincidenze in chiave psicologica e in chiave di fede.
Sul piano psicologico possiamo vedere questi miti come archetipi, impressi nell’inconscio collettivo e presenti nell'umanità; prendono corpo di volta in volta e tendono a emergere nelle varie culture, pur con contenuti variabili e adattati alle tradizioni specifiche.
Saputi leggere, ci rivelano con grande profondità il senso della realtà e della storia umana.
Per i cristiani, questi archetipi si attuano storicamente in Gesù di Nazareth, che rappresenta la piena e definitiva incarnazione di essi, in una circostanza storica precisa; rappresentano il culmine della promessa messianica sino allora rivelata come prefigurazione profetica.
Il credente illuminato vede questo processo come attuazione del piano della Provvidenza che si rivela gradualmente nell'umanità, attraverso la progressiva intuizione di una realtà superiore. In lui, credere che il senso degli eventi sia veramente questo costituisce l'esperienza del sacro: più che come sola deduzione logica, come vissuto profondo.
I meccanismi psicologici che tentano di spiegarne la genesi, non hanno nulla a che vedere con la comprensione della finalità che dà un significato agli eventi, come lo studio dei processi neurofisiologici che l'hanno accompagnata non spiegano il senso della Divina Commedia.
Queste considerazioni portano a superare la tentazione di voler ridurre il cristianesimo a un'evoluzione culturale; piuttosto si eleverebbe l’evoluzione culturale a una forma di rivelazione.
Affermava Dietrich Bonhoeffer che, prima di passare al Secondo Testamento, è necessario aver bene amalgamato il Primo.
Si potrebbe timidamente aggiungere che, per una comprensione più profonda del Primo Testamento e del messaggio evangelico, potrebbe essere utile anche una riflessione sui fermenti concentrici emersi nell’umanità.
Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est (la verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo), come abbiamo già visto, ci ricorda Tommaso d’Aquino.
Proseguendo la trattazione, avremo modo di riprendere alcuni di questi concetti.
2. Le narrazioni scritte
L'annunzio della buona novella (evangelo dal greco εὐ-αγγέλιον = buona notizia), inizialmente era trasmesso oralmente e limitato ai concetti essenziali.
Gli apostoli raccontavano, a voce, quanto avevano visto e ascoltato nel periodo trascorso con Gesù; l'obiettivo principale era di dimostrare, alla luce della resurrezione, che egli era realmente il Messia atteso e di diffondere il suo messaggio. Lentamente e con la ripetizione nei vari ambienti, prendeva una forma ben precisa, riproposta dai seguaci che formavano le prime comunità.
L'esposizione non intendeva essere un resoconto di cronaca; offriva un'interpretazione dei fatti che costituivano l'oggetto di fede dei credenti.
Si passò, ben presto, alla forma scritta, sia per le esigenze delle celebrazioni liturgiche, sia per avere una traccia sicura nell'insegnamento. Di alcuni testi conosciamo l'esistenza solo attraverso citazioni presenti in opere successive; qualche altro è stato riscoperto negli ultimi due secoli, in seguito a ritrovamenti archeologici.
Da quelli giunti fino a noi, si può capire come diversi elementi siano stati modellati, a volte in modo incontrollato, secondo gli ambienti nei quali erano stati trasmessi.
In alcuni, appare chiaro l'intento di trovare, nell'insegnamento di Gesù, semplicemente un avallo del pensiero dei loro autori.
A puro titolo di esempio, vorremmo proporre il brano finale di uno di questi documenti, ritrovato nel 1945 casualmente in Egitto: il cosiddetto Vangelo di Tommaso. Gli studiosi ipotizzano date della composizione originaria oscillanti tra il 50 e il 140.
Accanto a molte espressioni che incontriamo anche nei vangeli, altre, attribuite a Gesù, risentono del pensiero docetista.
In una, particolarmente curiosa, forse influenzata dal mitraismo, religione che ammetteva soltanto uomini, si legge:
Simone Pietro disse loro:
- Maria si allontani di mezzo a noi, perché le donne non sono degne della Vita!
Gesù disse:
- Ecco, io la trarrò a me in modo da fare anche di lei un maschio, affinché anch'essa possa diventare uno spirito vivo simile a voi maschi. Perché ogni donna che diventerà maschio entrerà nel regno dei cieli.
Gli apostoli - e poi le comunità cristiane collegialmente - vigilavano per evitare così vistosi travisamenti.
Fra le tante, alcune composizioni furono riconosciute come testi ufficiali: sono i vangeli, che costituiscono la base su cui si fonda il cristianesimo. Più che un resoconto storico, la loro finalità fu di trasmettere la predicazione della Chiesa nei tempi apostolici.
La trasmissione orale potrebbe aver causato una selezione degli eventi riportati; fra i tanti, si erano mantenuti quelli ritenuti più importanti per il messaggio religioso.
I primi tre vangeli, chiamati i sinottici, presentano strette analogie, tanto da far pensare a una fonte comune alla quale avrebbero attinto; tale fonte, su proposta di Johannes Weiss,, fu indicata col termine Q (dal tedesco quelle = sorgente).
Altri studiosi suppongono quattro scritti pre-evangelici - molto semplici e brevi - andati perduti, sui quali gli autori dei sinottici si sarebbero basati per redigere i rispettivi vangeli canonici.
Numerosi studi inducono a pensare che siano intercorsi adattamenti e rielaborazioni per rispondere alle esigenze delle rispettive comunità alle quali erano destinati, pur non sussistendo motivi di dubbio sulla sostanziale corrispondenza tra quanto riferito dai vangeli e il reale insegnamento di Gesù nel suo insieme.
Oggi gli studiosi tentano di ricostruire - pur consapevoli che non si tratti di un'impresa facile - quali fatti o detti potrebbero essere attribuiti realmente a Gesù e quali sarebbero dovuti alle elaborazioni delle prime comunità dei suoi seguaci.
3. La sistematizzazione teologica
Le prime comunità cristiane - e successivamente i Padri della Chiesa - si trovarono nella necessità di esprimere, concetti intuiti nei discorsi attribuiti a Gesù e adattati al modo di pensare del tempo; quando poi dalle norme di vita si passava a speculazioni sulla divinità, si imbattevano in ambiti che trascendono le capacità logiche umane.
Il bisogno di darsi spiegazioni li portò a elaborare un corpus dottrinale comprensibile nel loro ambiente, prendendo da esso le immagini e dalle correnti filosofiche del tempo i riferimenti teorici.
In questo necessario adattamento potremmo ipotizzare un duplice processo: da un canto rielaborare il nucleo storico per accostarlo agli archetipi e ai testi messianici dell'Antico Testamento; d'altro canto usare un linguaggio familiare in quel tempo e quindi facilmente comprensibile e trasmissibile.
Anche in tema di rituali, il cristianesimo nascente tendeva a conservare, dando un significato cristiano, celebrazioni presenti e radicate sia nelle tradizioni pagane, sia in quella ebraica; prima fra tutte, la celebrazione della pasqua, di origine ebraica ma con attribuzione di significato diverso nel cristianesimo.
Questa celebrazione trova un riscontro nei riti in onore di Attis (anche lui nato da una vergine): dopo alcuni giorni di lutto e di autoflagellazioni, nei quali si piangeva la morte, il 25 marzo era annunziata, con esplosioni di gioia, la risurrezione.
Superfluo notare - come abbiamo ampiamente osservato - che si tratta di processi spontanei, comuni in tutte le culture e a tutti gli esseri umani, che portano ad armonizzare quanto accolto con le proprie disposizioni interiori, escludendo l'intenzione di voler alterare il messaggio ricevuto.
Nei primi secoli, fra i Padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici, sono emerse due correnti opposte.
Una sosteneva che i miti pagani fossero espressioni diaboliche da aborrire, perché contrarie alla rivelazione e al culto divino; l'altra, portata avanti da Clemente Alessandrino e rappresentata autorevolmente da Agostino d’Ippona, le vedeva come prefigurazioni profetiche, ispirate da Dio per preparare la missione di Cristo.
Secondo Agostino la vera religione era sempre esistita:
Questa, che ora si chiama religione cristiana, era anche presso gli antichi e non mancò dall’inizio del genere umano, fino a quando lo stesso Cristo venne nella carne; da allora la vera religione, che già esisteva, cominciò a chiamarsi cristiana. Perciò ho scritto: “Tale è ai nostri tempi la religione cristiana...”; [fa riferimento a un passo del De Vera Religione] non perché non esistesse nei tempi passati, ma perché prese questo nome in seguito. (Retractationes I, XIII, 3)
Passiamo all'accenno di alcuni aspetti connessi con l'esigenza di organizzare i contenuti dottrinali.
A. L'aggancio alla Sacra Scrittura
Le grandi fedi religiose sono agganciate a scritti sacri, considerati come riferimenti sicuri e immutabili.
Per i cristiani l'aggancio è la Bibbia.
Non vogliamo entrare in merito al concetto d'ispirazione; vorremmo solo evidenziare tre modi di accostarvisi:
· I biblisti, in modo ammirevole, cercano di ricostruire le origini dei singoli testi, la loro ambientazione e tutto quello che può rivelarsi utile per la loro interpretazione.
· I teologi selezionano e utilizzano i testi a sostegno delle tesi che intendono dimostrare; almeno, era quello che avveniva nel passato.
· A livello periferico, nella cura pastorale, si attinge a essi per dare forza alle esortazioni e agli inviti ad adeguare il modo di vivere dei fedeli ai principi della fede professata.
In questo processo non è raro che avvengano sfocature. Spesso le citazioni bibliche servono solo da spunto per esprimere il proprio pensiero; le finalità sono sicuramente lodevoli, ma i contenuti non sono certo derivati dalle citazioni proposte. Esempi del genere sono frequenti nei Padri della Chiesa e negli scrittori ecclesiastici. Nulla da eccepire se i testi citati servano solo come spunto per colorire, a livello emotivo, pie esortazioni; le perplessità sorgono quando, partendo da esse si pretende innescare un ragionamento logico per giungere a conclusioni presentate come verità di fede.
Possiamo scorgere un'analogia nel linguaggio poetico nel quale l'obiettivo è suscitare stati emotivi, non presentare ragionamenti logici.
Contrariamente a quanto avveniva nel periodo del positivismo e dell’illuminismo che relegavano l'aspetto simbolico nel campo dell’irrazionale e dell’immaginario, l’antropologia religiosa di oggi riscopre questa dimensione dimenticata: il linguaggio simbolico come suggestione, complicità, connivenza.
Il problema sorge quando, nella lettura dei testi sacri, si isolano le frasi dal loro contesto e a volte si introduce una qualche forzatura.
Un esempio potrebbe illustrare il concetto.
Nella tradizione biblica, specie nei libri profetici e nei salmi, troviamo accenni alle attese messianiche.
Gesù si presentò come la realizzazione di queste attese e proprio nelle profezie i suoi discepoli videro una conferma.
Si tratta di una legittima costatazione, ma è anche comprensibile un duplice adattamento: da un canto aggiustare gli eventi alle profezie, d'altro canto adattare le profezie agli eventi.
Possiamo vedere un chiaro esempio nel Vangelo di Matteo:
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi.
(Mt 1, 22-23)
Il testo a cui il brano si riferisce è tratto da Isaia:
Il Signore parlò ancora ad Acaz: Chiedi per te un segno dal Signore, tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure dall'alto. Ma Acaz rispose: Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore. Allora Isaia disse: Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta stancare gli uomini, perché ora vogliate stancare anche il mio Dio? Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine (הָעַלְמָה ha-almah) concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché non imparerà a rigettare il male e a scegliere il bene. Poiché prima ancora che il bimbo impari a rigettare il male e a scegliere il bene, sarà abbandonata la terra di cui temi i due re. (Is 7, 10-16)
Possiamo avanzare due ordini di osservazioni: sul contesto e sul termine.
Dal contesto sembrerebbe che il Profeta si riferisca alla nascita del primo figlio di Acaz (il futuro re Ezechia) come segno della benevolenza di Yahweh; di fatto la realizzazione (sarà abbandonata la terra di cui temi i due re) avvenne pochi anni dopo: i due re che Acaz temeva, Resin e Pekah, furono sconfitti nel 732 a.C. dal re di Assiria, quando Ezechia era ancora bambino.
Che valore di segno avrebbe potuto avere per Acaz un evento che si sarebbe verificato sette secoli dopo?
Fra l'altro, al tempo di Gesù non esistevano più i due re.
In secondo luogo il termine almah più propriamente indica una giovane donna, non necessariamente vergine; lo riscontriamo, fra l'altro, in Proverbi:
Ci sono tre cose troppo meravigliose per me,
anzi quattro che non capisco:
la traccia dell'aquila nell'aria,
la traccia del serpente sulla roccia;
la traccia della nave in mezzo al mare
e la traccia dell'uomo nella giovane donna (almah).
Questa è la condotta della donna adultera;
mangia, si pulisce la bocca e dice: Non ho fatto alcun male!
Riuscirebbe imbarazzante immaginare che questa almah sia proprio illibata!
Da considerare inoltre che in ebraico esiste un altro termine per indicare propriamente la donna vergine: בְּתוּלָה (bĕthuwlah); troviamo il termine, fra l'altro, in Gen. 24, 16 a proposito di Rebecca: La giovinetta era molto bella, era vergine (bĕthuwlah), nessun uomo si era unito a lei.
L'equivoco nasce dal fatto che nella Septuaginta la parola almah è tradotta con παρθένος (parthénos), termine usato solitamente per indicare una donna vergine, ma non solo; anche in Genesi 34, 3 l'appellativo almah, usato per Dina, è tradotto con parthénos, pur essendo stata violentata e quindi non più vergine.
Per la verità, la stessa Septuaginta, nel caso precedente dei Proverbi, preferisce una traduzione pudica del termine almah usando ἐν νεότητι (en neóteti, nella giovinezza).
Più in generale, i libri che compongono il Nuovo Testamento, nella loro redazione, indulgono a volte al modo di pensare del tempo. Nel citarli, secondo quello che si vuole dimostrare, a volte ci si appiglia ossessivamente ai termini, altre volte s'ignora allegramente il contenuto, adducendo la giustificazione - come sarebbe doveroso fare anche in altri casi - che si tratta di concetti legati ai tempi.
Il dettaglio, forse non insignificante, è la discrezionalità con cui ciò avviene e il modo con cui si giustifica.
Semplicemente a titolo d'esempio, potremmo chiederci quale valore si dovrebbe dare, oggi, alla prescrizione categorica di Paolo contenuta, fra l'altro, nella Prima lettera a Timòteo:
La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza. (1Tm 2, 11-15)
B. La figliolanza di Dio
Nel suo insegnamento, Gesù evocava spesso la figura del padre, immagine allora molto più pregnante di quanto non lo sia oggi.
Nel modo di pensare del tempo erano considerati normali i rapporti di figliolanza tra divinità e la divinizzazione di esseri umani.
Il concetto stesso di trinità trova riscontro in triadi di divinità presenti in mitologie di diverse culture.
Attingendo a questi riferimenti, le prime comunità cristiane elaborarono - e consacrarono in formule - concetti che, in tal modo, potevano essere più facilmente compresi e tramandati.
Si tratta di immagini e potremmo chiederci in che misura siano da assolutizzare.
Quando parliamo dell’Essere Supremo siamo soliti esprimerci in termini di Dio uno e trino, usando una formulazione che fa appello a concetti di parentela a noi familiari e disposizioni spaziali (... siede alla destra del Padre) per tradurre contenuti che trascendono le nostre capacità logiche.
Ci si potrebbe chiedere se la trasposizione nella divinità della nostra organizzazione sociale non desti attualmente qualche perplessità e se non si possa tradurre lo stesso concetto con parole e immagini più vicine al modo di pensare dell'uomo di oggi.
Restando nell'ambito puramente psicologico, vorremmo richiamare un’osservazione, corollario di quanto abbiamo detto prima e che costituisce il tema dominante del presente lavoro:
Quiquid recipitur ad modum recipientis recipitur (Quanto viene recepito è proporzionale alla capacità di chi recepisce)
recitava un assioma caro alla filosofia di indirizzo aristotelico-tomista.
C. Il valore espiatorio della morte di Gesù
Nella tradizione ebraica era centrale il rito espiatorio dello Yom Kippur. Con la distruzione del tempio cessarono i sacrifici e di conseguenza si vanificò la funzione dei sacerdoti; tuttavia, l'idea del sacrificio, come espressione di lode e come espiazione sostitutiva, presente nella maggior parte dei culti, continuò a costituire un'esigenza profonda. I primi cristiani videro nella crocifissione e morte di Gesù un rito espiatorio, prefigurato nella liturgia dell'Antico Testamento. Nello stesso tempo videro in lui il sommo sacerdote al modo di Melchisedec, come superamento del sacerdozio della discendenza di Aronne.
D'altro canto, il pensiero legalistico, insito nella tradizione ebraica, agevolò nelle prime comunità cristiane il permanere di una certa ambiguità tra il concetto di redenzione e quello di espiazione.
Sebbene la Chiesa non abbia mai preso ufficialmente posizione su una particolare teoria della redenzione, la tesi sulla soddisfazione vicaria di Anselmo d'Aosta (1033-1109), ha avuto notevole successo per diversi secoli e la riflessione teologica cristiana nel passato non si è mai distaccata completamente da essa.
Fin dall'inizio, questa posizione suscitò notevoli perplessità: mostra Dio, più che come il Padre misericordioso del vangelo, che corre incontro al figliuol prodigo per riaccoglierlo in casa senza condizioni, come un giudice inflessibile che, per il pagamento di tutti i debiti, esige la morte atroce del proprio Figlio.
Si tratta di una visione che stride con la coscienza moderna.
A fine Ottocento, Friedrich Nietzsche, nel libro Der Antichrist, col suo linguaggio dissacratorio, scriveva:
Ah, come d'un colpo l'evangelo fu finito! Il sacrificio espiatorio e questo sotto la forma più ripugnante, la più barbara, il sacrificio dell'innocente per gli errori dei peccatori, che spaventoso paganesimo!
(L'Anticristo. Maledizione del Cristianesimo, 1888)
A quel tempo nessuno dei cattolici avrebbe potuto prendere in considerazione opinioni del genere.
Oggi il modo di pensare è cambiato e negli ultimi decenni sono in tanti ad avanzare idee simili; non ultimo l'austero Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, che in un'intervista rilasciata nell'ottobre 2015, nell'affrontare il problema, parla di evoluzione del dogma.
D. L'eucaristia
Nell'ultima cena Gesù invitò i discepoli a continuare a riunirsi sentendosi fratelli, figli dello stesso Padre e assicurò la continuazione della sua presenza nel pane che avrebbero mangiato e nel vino che avrebbero bevuto. Nello stesso tempo richiamava, in modo tangibile, l'invito a introiettare la sua immagine e il suo messaggio.
Nell'evoluzione che ne è seguita, la mensa si è trasformata in altare, la frazione del pane in un rito sacrificale e i presbiteri succeduti agli apostoli sono divenuti sacerdoti.
In questa evoluzione non pensiamo che siano del tutto estranei i culti, allora praticati, nei quali era poco ipotizzabile prescindere dagli altari e dai sacrifici.
Anche nei racconti evangelici, è attribuita a Gesù la formula rituale delle celebrazioni. Rientra nelle caratteristiche umane la tendenza a circoscrivere il rapporto con la divinità e volersela semplicemente ingraziare con riti, per ottenere vantaggi e favori.
Il messaggio forte di Gesù, col passare del tempo sarà ammorbidito. Si tenderà a trasformarlo in un atto di devozione per acquisire meriti; il suo corpo diventerà oggetto di culto, posto a distanza, anche se l’invito del Maestro non era quello di adorarlo o, tanto meno, di portarlo in processione! Si tratta di atteggiamenti comprensibili, sebbene sia legittimo chiedersi se si tratti di fede matura e in sintonia con l’insegnamento evangelico.
E. Radicalizzazione del rapporto
tra naturale e soprannaturale
Sotto l’influenza della filosofia platonica, dominante nei primi secoli del cristianesimo, si giunse a una radicalizzazione della distinzione tra naturale e soprannaturale facendone due entità distinte.
Il naturale è stato demonizzato e connotato come qualcosa di effimero, mentre è stato enfatizzato il soprannaturale visto come la vera realtà.
È stato preso in poca considerazione che l’uomo è un’unità paragonabile a una moneta nella quale le due facce, pur essendo distinte, rappresentano un’unica entità.
4. L'avallo del concilio di Nicea
L'editto di Milano del febbraio 313 costituisce una data fondamentale per la vita religiosa nell'impero romano e per la storia dell'Occidente; in esso i due Augusti dell'Impero Romano, Costantino per l'Occidente e Licinio per l'Oriente, firmarono un editto che concedeva a tutti i cittadini, quindi anche ai cristiani, la libertà di venerare le proprie divinità, ponendo definitivamente fine alle persecuzioni. Veniva, in tal modo, confermato un precedente editto di Galerio del 30 aprile 311 (editto di Serdica, l'attuale Sofia) nel quale il cristianesimo aveva ottenuto lo status di religio licita e quindi ammessa nell'Impero.
Nella convergenza d'intenti fra i due imperatori non era estraneo il carattere politico; avvenne nell'ambito di un'alleanza suggellata dal matrimonio tra Costanza - sorella di Costantino - e Licinio; questi, sebbene sia rimasto fedele alla religione pagana, in esecuzione dell'accordo, concesse anche ai cristiani dell'Impero d'Oriente la restituzione dei beni confiscati e il diritto di costruire luoghi di culto.
La concordia non durò a lungo; cessò nel 323 e l'anno seguente, Costantino dopo una serie di battaglie vittoriose, costrinse il rivale a cedergli la sua parte dell'Impero.
Con la nuova situazione, Costantino, per contribuire a stabilizzare l'assetto interno, orientò le credenze religiose dei vari popoli verso il cristianesimo, pur manifestando rispetto verso chi continuava a praticare la vecchia religione; promosse anche il dialogo con le correnti del paganesimo inclini a una qualche forma di monoteismo.
All'interno della fede cristiana si adoperò per ristabilire la concordia religiosa. Per raggiungere l'unità dogmatica, convocò e presiedette a Nicea il primo concilio ecumenico - svoltosi nel 325 nel palazzo imperiale - e obbligò, con la minaccia dell'esilio, tutti i vescovi cristiani alla partecipazione.
Lo scopo preminente era di rimuovere le divergenze sorte, inizialmente nella chiesa di Alessandria d'Egitto, fra i seguaci di Ario e i seguaci di Alessandro, vescovo di quella sede.
A conclusione, i vescovi convenuti elaborarono il documento che si recita ancora oggi nelle celebrazioni cristiane.
In esso prende forma definitiva la dottrina trinitaria, fino a quel tempo oggetto di interminabili discussioni.
Ario vedeva in Cristo una creatura del Padre, citando il Quarto Vangelo:
Avete udito che vi ho detto: Vado e tornerò a voi; se mi amaste, vi rallegrereste che io vado dal Padre, perché il Padre è più grande di me.
Gli oppositori citavano lo stesso evangelista:
Io e il Padre siamo una cosa sola. (Gv 10,30)
I padri conciliari superarono il problema attingendo alle concezioni antropomorfizzate, comuni in quel tempo. Usarono l'immagine meno imperfetta che si potesse avere:
generato non creato - prima di tutti i secoli - della stessa sostanza del Padre.
Fra gli uomini, nel rapporto di figliolanza, il padre e il figlio hanno la stessa natura, pur sussistendo una reverenziale subordinazione ...!
È legittimo che oggi qualcuno si chieda se la divinità, nella sua essenza, e prima di tutti i secoli, sia modellata secondo le strutture sociali umane?
Nello stesso concilio, in opposizione alle tesi docetiste, è ribadita la reale incarnazione, morte e resurrezione di Gesù (patì sotto Ponzio Pilato - morì e fu sepolto - risuscitò il terzo giorno). Si afferma anche la sua nascita verginale (nacque da Maria Vergine).
I concetti e la terminologia usata risentono degli orientamenti culturali ellenistici e delle concezioni filosofiche allora dominanti, con qualche indulgenza alle mitologie del tempo.
È proprio necessario sacralizzarli e conservarli immutati?
Nel formulare queste perplessità ci sentiamo confortati da quanto il teologo Giuseppe Ruggieri, sia pure in altro contesto, in una sua recente pubblicazione, osserva:
Il messaggio cristiano del resto va ogni volta comunicato nel linguaggio del proprio tempo. Non ci sono linguaggi eterni e questo vale sia per il linguaggio ebraico che per quello greco.
(G. Ruggieri, Esistenza Messianica, ottobre 2020, pag. 111)
Con l'editto di Tessalonica del 380 e i decreti attuativi, promulgati da Teodosio I tra il 391 e il 392, il cristianesimo diventò religione ufficiale dell'Impero; tutti i cristiani furono obbligati alla professione di fede formulata nel simbolo del concilio di Nicea e fu bandito, oltre ai culti pagani, l'arianesimo:
“... Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.”
(Dato in Tessalonica nel terzo giorno dalle calende di marzo, quinto del consolato di Graziano Augusto e primo di Teodosio Augusto)
A dire dello storico Giovanni Filoramo
... per la prima volta una verità dottrinale veniva imposta come legge dello Stato e, di conseguenza, la dissidenza religiosa si trasformava giuridicamente in crimen publicum: ora gli eretici potevano e dovevano essere perseguitati come pericolo pubblico e nemici dello Stato.
(G. Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, 2011)
Con questo riconoscimento, ebbe inizio, nei riguardi del paganesimo, l’intolleranza di cui i cristiani erano stati vittime: da perseguitati si trasformarono in persecutori, attuando distruzioni di templi pagani e atti di violenza che giungevano fino a costrizioni, torture e uccisioni.
* * *
Vorremmo concludere l'argomento ribadendo una considerazione già fatta.
Il corpus dottrinale elaborato nei primi secoli è caratterizzato da un linguaggio che riflette il modo di pensare allora corrente.
Gli scrittori ecclesiastici venuti dopo - in omaggio alla tradizione - si sono fedelmente conformati a questo linguaggio e qualsiasi allontanamento da esso era visto con sospetto e immediatamente condannato dalla gerarchia.
Oggi non in tutti, anche in chi è affascinato dal messaggio di Gesù e potenzialmente credente, questo linguaggio trova una risonanza adeguata.
È proprio impensabile sentirsi cristiani esprimendo, con linguaggio più consono al modo di pensare attuale, verità che ci trascendono?
1.
5. L'evoluzione della tradizione cristiana
Il non addetto ai lavori, che vuol curiosare sull'evoluzione della dottrina cristiana, ne trae una strana impressione: a dispetto della predicazione di Gesù che insiste sull'amore reciproco e sull'apertura agli altri, abbattendo ogni barriera, sia negli orientamenti ufficiali, sia in quelli considerati devianti e condannati come eresie, l'attenzione si è spostata su concetti di ordine speculativo.
Su un approfondimento dell’ortoprassi (pratica vera), cioè ricerca sul come conformare la vita al suo esempio, ai suoi valori e sul modo come attualizzarli nei contesti in cui si diffondeva il messaggio evangelico, è prevalsa l’ossessione per l’ortodossia (dottrina vera): sviluppare teorie sulla sua natura e sui rapporti col Padre, concetti che è possibile esprimere vagamente per immagini accessibili alla mente umana, poiché esulano dalla sua logica e dalla sua capacità di comprensione.
Indubbiamente, nel privilegiare questa piega ha avuto un certo peso la tendenza alla teorizzazione, caratteristica del pensiero greco. Proprio sul versante greco il dibattito, sfociato spesso in condanne da parte di concili, era maggiormente rivolto su problemi riguardanti la divinità, mentre nell'ambito della chiesa latina, le proposte reputate eretiche ponevano l'attenzione sull'uomo.
A livello pratico, sull'aspetto relazionale e sociale, consistente nella spinta verso la realizzazione del regno dei cieli, è prevalso, in molti, il ripiego verso la ricerca egocentrica della propria salvezza individuale. All'ideale di vita all'insegna dell'amore e della fratellanza, è subentrata la preoccupazione per la stretta osservanza di norme e per la vita ascetica, allo scopo di guadagnare meriti per il paradiso.
Dal Dio predicato da Gesù, che vuole essere riconosciuto nei poveri e nei deboli, si è tornati al Dio degli ebrei che vuole essere temuto o obbedito.
Inoltre, sulla meditazione e la cura per l’attuazione del suo messaggio, è prevalsa l’adorazione della persona di Cristo, al fine di avere protezione e vantaggi nel presente e nel futuro.
Potremmo scorgere in tutto questo processo una tendenza all'involuzione, umanamente comprensibile, che persisterà nei secoli; ci si chiede se questo ripiego rifletta veramente quello che voleva Gesù o non piuttosto distragga l'attenzione da esso, alimentando l'egocentrismo che permane in ogni essere umano.
Se, poi, volessimo dare uno sguardo alla storia, potremmo malignamente notare come una certa frangia - più banalmente e pragmaticamente - ha preferito saltare sul carro del vincitore: la copertura della fede cristiana - divenuta dominante - è servita larvatamente alla ricerca di vantaggi personali diretti o indiretti.
Sono queste le perplessità che sorgono spontanee nell'uomo comune che guarda l'evoluzione del cristianesimo come un fenomeno sociale.
Dal Dio dei filosofi al Dio del Magistero
Le riflessioni su Dio possono partire da varie angolature; pur avendo sempre lo stesso oggetto.
Il problema sorge quando un singolo orientamento ignora i limiti propri e vuole totalizzare il problema, non prendendo in considerazione gli altri o, ancora peggio, tentando di confutarli.
In realtà, ogni orientamento mette in luce una certa sfaccettatura complementare a quella focalizzata dagli altri.
Il Dio dei filosofi
Caratteristica della speculazione filosofica è una forma di conoscenza astratta che non coinvolga la propria esistenza.
Il Dio dei filosofi ruota attorno al concetto di semplice oggetto di conoscenza intellettiva; è presentato come puro essere, supremo e ultimo, chiuso in se stesso e staccato dall’uomo: la sua assoluta eternità e immutabilità esclude ogni rapporto con ciò che è mutevole e soggetto al divenire.
Inoltre, considerando le dimensioni dell'universo, la terra è un corpuscolo insignificante; sembrerebbe strano pensare che un tale essere supremo si debba impicciare dell’uomo, delle sue apprensioni, del suo comportamento o tenere la contabilità dei suoi peccatucci, dei suoi pentimenti e delle sue buone azioni.
Il Dio della fede
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. (Mt 11, 25)
Nella conoscenza, i princìpi fondamentali si intuiscono, il ragionamento poi li dimostra, li articola ed elabora deduzioni; sebbene per vie diverse, in entrambi i casi si può tentare di avvicinarsi alla verità. Il concetto riecheggia, in qualche modo, la distinzione platonica di conoscenza noetica distinta dalla dianoia (conoscenza deduttiva, matematica) e dalla doxa (conoscenza basata sull’opinione soggettiva).
Anche le intuizioni del cuore hanno il loro peso e la loro coerenza, pur non coincidendo sempre con la logica; si ripete spesso che il cuore è cieco, ma non lo è più della ragione quando l’uno o l’altra prevaricano.
Al Dio della fede si giunge attraverso intuizioni che vanno oltre la concezione dei filosofi; pur non cessando di essere ciò che loro descrivono, ruota attorno al concetto di amore e si manifesta a coloro che vi si accostano con umiltà e semplicità; l'amore non è una deduzione logica: è una forma di conoscenza imperniata sulla relazione.
Da non perdere, però, di vista un concetto ripetutamente espresso: quando l’oggetto delle intuizioni trascende la capacità di comprensione della logica umana, si ha la necessità di rappresentarselo con immagini familiari, rispondenti al modo di pensare del tempo e ai bisogni umani.. Il rischio sempre presente è di confondere la realtà intuita con le immagini che servono solo a darne una vaga idea. Il pericolo diventa ancora più grave se si pretende trarre da esse deduzioni, riguardanti la realtà stessa, che apparirebbero consequenziali alla luce della logica umana.
L'esperienza di fede comporta un completo abbandono in una dimensione diversa nella quale ci s'immerge.
È paragonabile all'ebbrezza dell'immersione subacquea, un'esperienza quasi mistica, difficilmente descrivibile: la vista della distesa infinita del mare, contemplato da riva, svanisce per cedere il posto alla voluttuosa e avvolgente carezza dell'acqua e alla scoperta di un mondo diverso.
Il parlare di Dio, per il credente, è il racconto di un’esperienza di vita vissuta e della relazione con lui, non la disquisizione sulla concezione della divinità.
Per andare verso Dio e per parlare di lui, più che di filosofi e di teologi, si ha bisogno di testimoni.
Ci offre un esempio il romanzo giovanile a sfondo autobiografico di Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, ambientato nella Bologna degli anni '90.
Il protagonista, Alex D, è un ragazzo appartenente a una famiglia della media borghesia: sguardo da duro, capelli tagliati cortissimi, zaino, anfibi, magliette delle band musicali, invicta e parka, la divisa d'obbligo degli studenti di sinistra del tempo.
Il suicidio dell'amico Martino gli fa intuire la necessità di abbandonare il conformismo: uscire dal gruppo, rompere ogni schema, fare un salto fuori dal cerchio che gli hanno disegnato attorno.
Si rivolge a Dio con un ringraziamento fatto con una tale freschezza e spontaneità giovanile da apparire quasi come una pacca sulla spalla:
... e a inizio marzo splendeva già il bel tempo in città, e ogni mattina Dio srotolava un cielo talmente azzurro con certe nuvole d’ovatta candida appese in lontananza che era impossibile non ghignare di felicità e affacciarsi al balconcino o uscire in strada e resistere alla tentazione di gridargli: grazie capo, non lo dimenticheremo.
Si tratta d'ingenua esperienza di vita vissuta, connessa con la sfera emotiva.
Le emozioni, oltre che essere associate a elementi cognitivi, permettono di conoscere particolari aspetti della realtà ai quali non si potrebbe accedere in modo diverso.
La fede non è una credenza, è un'esperienza di vita e comporta un coinvolgimento globale dell'essere, a tutti i livelli, partendo proprio da quello emotivo.
Il Dio cristiano, come traspare dai vangeli, è un Dio che si è fatto uomo, che parla agli uomini, che ciascuno può invocare e può incontrare nell'esperienza con la persona di Cristo.
Abbiamo in precedenza visto come nell'uomo prevalga la ricerca del bene su quella astratta del vero.
Nel messaggio evangelico, l’immagine cristiana di Dio va oltre i confini della razionalità e ci presenta l’amore come superiore al puro pensiero. L'atto stesso creativo è un atto d'amore.
Spostandoci sul piano concettuale, la creazione della materia postula l'origine del tempo e del divenire a essa strettamente collegato. Il Creatore, pur prescindendo da questa realtà, la supporta nella sua evoluzione, poiché il tempo fa parte della creazione stessa, creazione che non si esaurisce nell'atto iniziale.
Per noi, immersi nel tempo, è difficile concepire qualcosa del genere. È difficile pensare che ciò che per l'universo si squaderna siano le pagine che nel tempo si sfogliano, mentre l'eterno resta legato con amore in un volume.
Come considerare la morte? Non si potrebbe vedere come il dissolversi del tempo per lasciare emergere la dimensione atemporale, nella quale siamo immersi?
Idealmente, nel piano della Provvidenza, l'uomo - nel tempo - è chiamato a proseguire l'opera creativa, completandola attraverso il cammino verso la realizzazione del regno dei cieli.
Potrebbe essere questa una pallida rappresentazione del Dio della fede, come ci inducono a pensare i testi sacri.
Sono concetti difficilmente rappresentabili senza far ricorso a una forte antropomorfizzazione, pur restando coscienti della differenza tra realtà e modo di rappresentarsela.
Di fronte alla pretesa di volerlo definire, vale il citato ammonimento di Agostino d'Ippona: Si scis, non est Deus (Se lo capisci, non è Dio).
È questo il modo tradizionale di vivere la fede, ma non in tutti trova oggi la stessa risonanza.
Vi sono quelli che, facendo leva sulla inconoscibilità di Dio, preferiscono andare oltre i concetti e le immagini e giungere al Creatore attraverso un’intima sintonia col creato.
Parlano di sentimento religioso cosmico, ma sono intuizioni difficilmente trasmissibili, anche se intensamente vissute; ne accenneremo avanti dando la parola a Einstein.
C’è posto anche per loro nella fede?
* * *
Nell’impossibilità di abbandonare completamente le immagini, alla luce di quanto abbiamo detto fin ora, possiamo ricorrere a un’altra rappresentazione, pur consapevoli che si tratta di una pura analogia.
Su un piano strettamente soggettivo, potremmo concepire la felicità come la capacità di godere pienamente di quello che si ha e da condividere con i propri simili, considerati tutti fratelli; ciò non esclude una certa tensione verso qualcosa di meglio, sempre possibile, purché ciò non impedisca di apprezzare la realtà del momento. Per contro, l’infelicità consiste nel desiderare quello che non si ha o non si può avere, al punto da impedire la valorizzazione di quello di cui realmente si dispone.
La persona veramente religiosa considera tutto un dono di Dio, di cui godere pienamente; se a volte subentra il disagio, vede in esso solo un invito a operare per il suo superamento.
Va oltre il sensibile: considera la realtà e gli eventi come trasparenti e dietro di essi un piano della Provvidenza, come una volontà superiore che li determina e a cui abbandonarsi.
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Il Padre nostro, la preghiera insegnata da Gesù, se ben intesa, illustra con efficacia questo concetto, aiuta a sintonizzarsi col piano della Provvidenza e a vivere più serenamente e in modo più maturo la propria religiosità, a prescindere dall’impostazione speculativa.
Perché non valorizzare questa preghiera considerandola un costante invito alla riflessione e privilegiare la sua meditazione rispetto a tanti riti, recite di formule, devozioni, novene o coroncine?
Lo stesso Agostino, nella citata Lettera a Proba, prosegue:
Le espressioni che abbiamo passato in rassegna hanno il vantaggio di ricordarci le realtà che esse significano. Tutte le altre formule destinate o a suscitare o ad intensificare il fervore interiore, non contengono nulla che non si trovi già nella preghiera del Signore, purché naturalmente la recitiamo bene e con intelligenza.
Chiunque prega con parole che non hanno alcun rapporto con questa preghiera evangelica, forse non fa una preghiera mal fatta, ma certo troppo umana e terrestre.
Il Dio dei teologi
Teologia fondamentale! È come succhiare un chiodo!
Fu una battuta estemporanea di Papa Francesco quando, nell'aprile del 2014, in occasione dell'incontro con il personale e gli allievi dell'Università Gregoriana di Roma, il Rettore della stessa gli presentò il direttore del Dipartimento di Teologia fondamentale.
Con quell’espressione alludeva a un sapere teologico spesso arido e chiuso su se stesso, con la pretesa dei suoi cultori di sentirsi gli unici detentori della verità.
Nello stesso incontro il Papa ammoniva:
Questa è una delle sfide del nostro tempo: trasmettere il sapere e offrirne una chiave di comprensione vitale, non un cumulo di nozioni non collegate tra loro. C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini, non di una sintesi ma di una atmosfera spirituale di ricerca e certezza basata sulle verità di ragione e di fede. La filosofia e la teologia permettono di acquisire le convinzioni che strutturano e fortificano l’intelligenza e illuminano la volontà…
Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità, sempre in sviluppo, ... Questo è il teologo che ha la mente aperta. E il teologo che non prega e che non adora Dio finisce affondato nel più disgustoso narcisismo. E questa è una malattia ecclesiastica. Fa tanto male il narcisismo dei teologi, dei pensatori, è disgustoso.
L'elaborazione teologica, oltre che legittima, è una necessità, poiché una prassi di vita deve essere supportata e contestualizzata da un'impostazione teorica. Il pericolo, sempre presente, è che si riduca a pura speculazione accessibile solo a iniziati.
Almeno, è quanto avveniva spesso nel passato.
A volte, leggendo i vecchi trattati, si ha l'impressione che alcune forme di pensiero teologico si siano cristallizzate nel filone neoscolastico e precettistico, sempre meno comprensibile per l’uomo moderno: sono percepite come un inutile fardello, sempre meno conosciuto e meno preso in considerazione. Il grande Tommaso d'Aquino ha avuto un peso decisivo nel passato, ma i suoi lontani epigoni raramente trovano ascolto nel mondo attuale.
Emblematico il caso di Umberto Eco, cattolico militante fino al periodo universitario. Scelse come tesi di laurea un argomento sull'estetica in San Tommaso d'Aquino; l’approfondimento del pensiero dell’Aquinate lo portò all’allontanamento dalla fede, tanto da fargli scrivere - ironicamente - in un articolo pubblicato sul Time nel 2005: «Si può dire che lui, Tommaso d'Aquino, mi abbia miracolosamente curato dalla fede».
Oggi il teologo, nel suo delicato compito, si trova a doversi costantemente districare tra opposti pericoli per due diversi aspetti:
- da un lato tra le sterili elucubrazioni mentali, in opposizione alle antropomorfizzazioni che alimentano il devozionismo popolare;
- d'altro canto tra il rigido integralismo passato e il tutto è uguale al contrario di tutto di un certo relativismo estremizzato.
In questi complessi dilemmi non è sempre facile trovare la giusta armonia e non tutti considerano con rispetto le posizioni degli altri. La continua evoluzione del pensiero in campo teologico rende impossibile all’uomo comune di tenere il passo, anche per la difficoltà che s’incontra nel distinguere tra teologi che si attardano nel tentativo di trovare giustificazioni a posizioni passate e quelli che - ora meno vincolati dalla censura del Magistero - intendono coraggiosamente percorrere altre vie, facendo leva su nuovi parametri di riferimento.
Il Dio del Magistero ecclesiastico
Sebbene il fondamento del messaggio evangelico sia costituito dall'insegnamento di Gesù di Nazareth, non tutto si esaurisce con esso. Gesù stesso aveva precisato:
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando, però, verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. (Gv 16,12-13)
Alludeva, forse, con questa espressione agli sviluppi che sarebbero seguiti, conseguenti alla diffusione del messaggio in ambienti diversi e all'adeguamento alla società in evoluzione. Sarebbe stato impossibile anticipare norme concrete per le varie circostanze che si sarebbero verificate nel corso dei secoli e destinate a mutare; al fine di assicurare la continuità, promette l'assistenza dello Spirito Santo che si sarebbe manifestata attraverso le ispirazioni provenienti dall'intimo di ognuno. Espresso in termini diversi, pensiamo fosse questo il concetto: assimilate il mio messaggio e il modello di vita che vi ho dato; poi, nelle situazioni concrete nelle quali vi troverete, ascoltate la voce che affiora dal vostro intimo.
Si tratta di un orientamento ideale che suppone una perfetta interiorizzazione del modello di vita proposto; nella realtà concreta, la fragilità umana potrebbe intralciare la sua realizzazione.
Ne segue che l'interpretazione non può essere lasciata al singolo individuo; pur essendo egli chiamato alla valutazione delle sue scelte personali; è necessario un controllo per evitare deviazioni.
A questo scopo, Gesù aveva affidato a Pietro il compito di vigilare: Confirma fratres tuos.
Confirma fratres, difficile compito
Nel Vangelo di Luca leggiamo:
Il Signore disse ancora: Simone, Simone, ecco, Satana ha richiesto di vagliarvi, come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te, acciocché la tua fede non venga meno; e tu, quando un giorno sarai convertito, conferma (stήrixon, sterixon, letteralmente: rafforza) i tuoi fratelli. (Lc 22, 31-32)
Fin dai primi decenni della diffusione del messaggio evangelico, sorgevano problemi di adeguamento alle situazioni concrete che andavano emergendo. Gli apostoli, considerati gli interpreti più fedeli e autorevoli dell'insegnamento di Gesù, con la guida di Pietro, insieme tracciavano gli orientamenti.
Col passare del tempo prese forma il Magistero ecclesiastico.
Il suo compito è di recepire gli orientamenti che stabilmente emergono nel popolo di Dio, codificarli e rilanciarli come dottrina ufficiale.
Le istanze della base
Il messaggio evangelico coincide con l'ideale di piena maturità e con quella che suole essere indicata come legge naturale.
L'individuo pienamente maturo dovrebbe tendere spontaneamente verso quest'ideale, concretizzato nell'apertura verso gli altri e nella ricerca del bene comune e rimandarlo come testimonianza.
Nella realtà concreta, però, in ogni persona permangono, in misura diversa, forme d'immaturità che impongono cautele.
Le cautele del Magistero
Inoltre, gli orientamenti del Magistero ecclesiastico sono rivolti all'intera cristianità, sparsa in tutte le parti del mondo; occorre del tempo perché gli orientamenti emersi, anche se legittimi, si stabilizzino e siano riconosciuti come valori da generalizzare.
Ciò comporta che non sempre si possa procedere in modo rapido e lineare.
A volte mode culturali accattivanti, come fuochi fatui, possono catturare l'attenzione; solo il tempo farà capire se costituiscono tappe verso la realizzazione del regno dei cieli o novità effimere destinate a scomparire.
Ne segue l'amara considerazione dell'impossibilità di essere al passo con i tempi. Passeranno decenni o forse secoli prima che esigenze valide siano riconosciute come tali; quando ciò avverrà, saranno superate perché le proposte si evolveranno in altre forme.
Da qui il disagio e i conflitti di tante coscienze che rischiano di vedere le loro felici intuizioni o legittime esigenze sul momento condannate, mentre in tempi successivi saranno valorizzate.
Significativa l’espressione del cardinale Carlo Maria Martini nel consegnare a padre David Maria Turoldo, poco prima della sua morte, il Premio Giuseppe Lazzati: La Chiesa riconosce la profezia troppo tardi.
Le resistenze al cambiamento
Ancora un altro inconveniente, purtroppo costante.
Anche quando il Magistero ufficiale riconosce la legittimità di alcuni cambiamenti, non tutti sono disposti ad accettarli.
Pur parlando di globalizzazione, il modo di pensare non è uniforme in tutte le parti del pianeta e - anche negli stessi ambienti culturali - non in tutte le fasce sociali e in tutti gli individui.
Tertulliano, all'inizio del terzo secolo, ha incisivamente affermato la posizione cristiana in contrapposizione al persistente attaccamento, per pura abitudine, alla mitologia, pur essendo percepita, dai più illuminati, come vuota e priva di senso:
Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit (Cristo nostro Signore ha affermato di essere la verità, non la consuetudine). (De virginibus velandis 1,1)
La felice espressione è citata da Benedetto XVI in occasione dell'udienza generale del 21 marzo 2007, ma con una precisazione:
Si noti in proposito che il termine "consuetudo", qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo».
Pur con tutto il rispetto verso un Papa tanto benemerito, vi è chi si chiede se questa precisazione non capovolga il senso del termine consuetudo; nel contesto in cui l'autore lo usa, è da tradursi con «moda del tempo» o non piuttosto con abitudini radicate?
Questa riflessione fa sorgere in molti una perplessità.
Ci si potrebbe chiedere se non ricalchi l’atteggiamento passato: tanti scrittori dei primi secoli, non esclusi alcuni Padri della Chiesa, avvaloravano le loro opinioni - in realtà, condizionate dal modo di pensare del tempo - con citazioni bibliche isolate dal contesto; giungevano poi ad affermazioni ritenute in quel tempo accettabili e rilanciate fino a divenire dommi ai quali si impone ancora di credere.
Non si potrebbe pensare a realtà misteriose, che sfuggono alla comprensione umana e che possono essere tradotte, di epoca in epoca, seguendo il mutato modo di pensare e la sensibilità dei tempi successivi, pur coscienti che si tratta solo di modi di esprimersi, senza la pretesa di attribuire a essi un carattere d’immutabilità?
Lo Spirito santo si limita a ispirare le gerarchie o estende la sua azione al popolo di Dio, affinché le intuizioni emerse, raccolte dai vescovi e confrontate collegialmente, siano codificate e rilanciate? È quanto dovrebbe avvenire nei concili ecumenici ma, fino a qual punto gli orientamenti emersi nell’ultimo concilio siano stati veramente e integralmente ascoltati e attuati, è sotto gli occhi di tutti!
Dobbiamo accogliere come verità, quello che Gesù ha detto - attualizzato nel mondo in cui viviamo - o le norme accumulate in epoche diverse da quella attuale e sacralizzate come tradizione, anche se oggi si potrebbero rivelare non in sintonia con le esigenze emergenti?
Anche ai tempi di Gesù s'invocavano tradizioni radicate e sacralizzate; non sembra, però, che egli le avallasse in modo acritico.
A leggere gli scritti degli attuali conservatori si resta sorpresi: spacciano per verità indiscutibili i documenti dei concili passati e le abitudini consacrate da tradizioni strutturate in tempi diversi dai nostri e sorvolano con disinvoltura su quello che i vangeli presentano come insegnamento di Cristo.
A riflettere serenamente, in tante forme di eccessivo zelo per la difesa della tradizione e dell'ortodossia non è difficile scorgere sottili forme di egocentrismo, in palese contrasto con l'insegna-mento evangelico. Ci s'irrigidisce nel difendere pratiche di culto formali, con le quali ingraziarsi la divinità, o nell'osservanza fedele di alcune norme o nell'austerità della vita per sentirsi nel giusto e guadagnare meriti per se stessi.
Per contro, per non rischiare che sia intaccata la propria opulenza, non si esita a sostenere che debbano essere ributtati in mare i disperati che fuggono dalle guerre, dalle torture o dalla miseria!
Saremmo curiosi di conoscere quale significato intendano dare alla parabola del buon samaritano o alla consegna data da Gesù nell'ultima cena o ancora al discorso escatologico in cui Gesù non indica come criterio per essere suoi discepoli o per trovarsi nel giusto il numero e la bontà delle pratiche di devozione ma l’aiuto prestato ai fratelli.
A pensarci bene, mentre Gesù poneva al centro la persona e il suo rispetto (il sabato è per l’uomo …), la preoccupazione di tanti, che si dichiarano suoi seguaci, è la difesa e salvaguardia di un idolo: l’ossessione maniacale per la legge o per l’ortodossia tramandata e imposta, proprio quello che Gesù stesso condannava nei farisei.
Si tratta di una preoccupazione che può giungere fino al fanatismo: il bisogno di proteggere e difendere con tutti i mezzi il proprio idolo fa vedere dovunque pericoli e macchinazioni del diavolo.
Ne seguono sospettosità e intolleranza; la ferma convinzione di trovarsi nel giusto, d’altra parte, vanifica ogni tentativo di dialogo che possa far mettere in discussione le idee preconcette.
Altre cause d’irrigidimento, nelle alte sfere, sono legate alla ricerca di supremazia: i potenti del Vaticano difficilmente rinuncerebbero a un potere accumulato fin dal Medioevo, derivante da un’organizzazione rigorosamente burocratica e da un’immagine di Chiesa clericalizzata e trionfalistica.
Sono forse riducibili a questi i motivi delle resistenze nella realizzazione degli orientamenti innovativi emersi dal Concilio Vaticano II, in particolare l’apertura alla discussione, l’invito al dialogo, più che la polemica difensiva, e a uscire dal proprio recinto, abbandonando la preoccupazione di essere costantemente il centro.
È comprensibile che qualcuno si senta smarrito di fronte alle idee nuove e non trovi la forza e il coraggio di uscire da abitudini consolidate.
L'agorafobico sviluppa sempre crisi di panico quando lo spazio intorno a lui si allarga.
Essere dominati dalla paura di perdere qualcosa e dalla preoccupazione rigorista di conservare tutto come prima, significa tutelare il messaggio di Cristo?
Coloro che tendono a conservare lo status quo ante, con la loro dialettica, sono abili nel trovare giustificazioni, non meno degli scribi e dei farisei al tempo di Gesù.
Funzione della Chiesa è cogliere e valorizzare i segni dei tempi. Paradossalmente, quando un Concilio Ecumenico o un Papa tenta di invertire la rotta per tornare al messaggio originario di Cristo, si scatena la furia reazionaria della fazione conservatrice che, in nome di una presunta tradizione, considera verità incrollabili le sospette involuzioni.
Il Concilio ha trovato un sordo muro di gomma sostanzialmente indeformabile: anche se a volte momentaneamente compiacente, ritorna subito nella posizione iniziale.
L’attuale Papa incontra più ascolto nei lontani o nei pubblicani e nelle prostitute, come avrebbe detto Gesù. Suscita, invece, viscerali reazioni ostili in tanti che si considerano vicini, gli scribi e i farisei che si sentono i depositari della verità e, con l’arroganza e la prosopopea del Grande Inquisitore, lo accusano di comunismo perché nei suoi discorsi pone più l’accento sulla giustizia sociale anziché sulla santità di vita, ridicolizzano, tacciandoli di bergogliate, gesti di profonda umanità e saggezza, anche se non in linea con i tradizionali dettami della medievale corte pontificia.
Ha destato un certo scalpore la lettera aperta del 30 aprile 2019 firmata da un gruppo di conservatori che accusavano Papa Francesco di eresia.
Una serena lettura del loro circostanziato documento induce a un'amara riflessione: se questi esimi studiosi prestassero un po' più d'attenzione nel leggere il Vangelo, anziché nell'elucubrare sui decreti dei concili di Trento o di Cartagine, non spaccerebbero per verità assolute orientamenti legati a modi di pensare che riflettono tempi ormai passati.
L’interpretazione cristiana elaborata secondo il modo di pensare di quel tempo e cristallizzata dalla tradizione appare, per molti, anacronistica e offusca la bellezza e profondità originaria.
Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri, aveva affermato il compositore Gustav Mahler.
Qualcuno aggiunge che tradizione non è nemmeno un feticcio da portare in giro per esorcizzare le strade impure della modernità!