Parte seconda - Verso la pienezza dei tempi
Parte seconda
Verso la pienezza dei tempi
È attraverso l'eternità
che ciò che è effimero riceve il suo senso.
Movimenti concentrici
emergono in tutto il pianeta:
culture si alternano
nella ricerca
di rapporti sereni fra gli uomini,
e verso l'intuizione del mistero profondo
che avvolge la vita e il suo destino.
Gesù di Nazareth
valorizza gli apporti e va oltre
predicando un ideale di vita armoniosa:
il “regno dei cieli”,
da attuare attraverso l’amore.
Ciascun individuo,
nella sua evoluzione,
tende a raggiungere
lo stesso traguardo.
Miliardi di anni si susseguono, deflagrazioni cosmiche cedono il posto a silenziosi percorsi di stelle.
Millenni passano ancora, fragore di guerre ed evoluzioni di popoli sedimentano in ricordi lontani.
Al centro resta sempre l'uomo, una canna che pensa, alla perenne ricerca di un senso da dare al suo essere nel mondo.
Nel corso del travagliato transito nella scena della vita, egli costantemente oscilla tra l'impulso egocentrico a ripiegare su interessi immediati e l'anelito verso orizzonti più vasti che lo portino a immergersi in un rapporto armonioso con le realtà che lo circondano.
Le grandi civiltà, dall'Oriente all'Occidente, con movimento concentrico, fanno intuire un sublime traguardo.
Gesù di Nazareth lo rende concreto nel suo messaggio d'amore e lo suggella con la vita e la morte di croce.
Ogni uomo ha di fronte a sé la responsabile scelta se lasciarsi vivere - seguendo l'inerte e facile deriva del sistema corrente - o se contribuire al proprio riscatto, uscendo dal rauco e monotono coro dell'anonimo conformismo, per aprirsi all'amore, in sintonia con il tenue sussurro sempre presente nell'intimo del cuore d'ognuno.
Non ci resta che intuire questo traguardo e gli orizzonti aperti dalle prospettive a esso collegate.
Le grandi civiltà hanno dato il loro apporto per il superamento degli egoismi individuali e l'apertura al bene comune.
Il singolo individuo, nel cammino che porta alla piena realizzazione di sé, segue lo stesso percorso.
Tutto converge nel dare un senso alla vita:
orientare il proprio essere nel mondo
alla realizzazione del Regno dei Cieli,
l'ideale di vita armoniosa
tracciato da Gesù nazareno.
È quanto sarà tratteggiato in questa seconda parte.
1. L’apporto delle grandi civiltà
Meteore luminose solcano il cielo e scompaiono.
Grandi civiltà sorgono nelle varie parti del mondo, raggiungono la loro massima espressione e lentamente declinano, cedendo il posto ad altre che sorgeranno, destinate a tramontare anche loro.
Oltre a quelle sviluppate nell’area mediterranea, altre sono emerse in parti più remote; le antichissime culture di Peiligang, di Yangshao, in Cina, i Nok, i Nubiani, i Kushiti gli Axumiti in Africa, i Maya, gli Incas, gli Aztechi nell’America precolombiana, costituiscono solo degli esempi.
Vicissitudini varie le riportano nell'ombra, ma resta sempre una traccia e il loro apporto formerà il patrimonio del genere umano.
In queste pagine ci limiteremo a qualche riflessione sulle culture che hanno avuto un peso maggiore nella strutturazione del pensiero cristiano.
Attraverso miti, elaborano e propongono verità profonde, sebbene spesso appesantite da orpelli, atti a soddisfare le rudimentali esigenze dell’uomo comune.
La gente semplice, in tutti i tempi, chiederà immagini concrete e si fermerà a esse; da esse attenderà aiuti concreti per superare difficoltà contingenti.
Solo pochi riusciranno ad andare oltre, per intuire le realtà sottostanti, di cui le immagini elaborate costituiscono solo dei simboli.
Superate le colorite rappresentazioni che caratterizzano il pensiero dei singoli popoli, si scorgono temi comuni, tradotti in modo diverso e concretati in immagini comprensibili alla gente alla quale esse sono dirette.
Nell'accostarci alle grandi civiltà è possibile notare una costante che le accomuna: pur fra tante incertezze, traspare lo sforzo per superare gli egoismi dei singoli individui e dare spazio alla ricerca dell'armonia nei rapporti reciproci e del bene comune - sia pure ancora circoscritto alle proprie nazioni - e la ricerca di valori che accomunano tutti.
Emergono intuizioni profonde che esprimono il bisogno di andare oltre le apparenze, di trovare spiegazioni dell'esistenza del mondo, della presenza dell'uomo sulla terra e del destino a cui egli va incontro; si attinge alle proprie tradizioni per raffigurarsi realtà che vanno oltre le capacità di comprensione dell'uomo.
Il cristianesimo farà tesoro di queste intuizioni, le sfronderà dalle costruzioni artificiose e le rilancerà con immagini diverse in un insieme organico, ma anch'esso sarà spesso costretto a ricorrere a simboli che rischiano di offuscare realtà misteriose e ineffabili.
L’accostarci riverenti a quello che i popoli, con le loro conquiste ci hanno tramandato potrà aiutarci a capire sempre meglio la portata profonda del messaggio di Gesù nazareno.
Questo concetto ne introduce un altro, che sarà il motivo dominante dell’intera trattazione.
Se ben inteso e sfrondato da tante sovrastrutture, accumulate nei secoli passati, il messaggio evangelico compendia, non solo le conquiste e le aspirazioni affiorate nell'umanità nel corso dei millenni, risponde anche ai bisogni più intimi della natura umana.
A. L’eredità
della millenaria cultura dell’Egitto
Non è certo agevole, per i non addetti ai lavori, penetrare nella cultura che - per millenni - si è sviluppata in Egitto.
Chi tenta di spingere lo sguardo, sia pure in modo superficiale, nell’organizzazione sociale e religiosa di questo popolo scopre un mondo circondato e intriso di divinità; più che esprimere idee astratte e incorporee, esse costituiscono un elemento intrinseco alla natura.
Sono gli dèi (neteru) che creano e continuano ad agire fondendosi con le loro creature; volendo assumere un aspetto corporeo, si discostano in parte o in tutto dalle sembianze umane per apparire, in modo sorprendente, sotto forme di animali, di piante o di altre realtà, con le quali simboleggiano un loro modo di intervenire nel mondo.
A differenza di quanto avviene in altre concezioni religiose, le divinità egizie non sono trascendenti ma insite nei fenomeni della natura, come energia che si manifesta nelle varie entità: dall'uomo, agli animali, alle piante, alle stelle.
Il loro agire appare spesso misterioso, come se sfuggisse a ogni logica per slittare in un mondo magico; proprio nel tentativo di sintonizzarsi con loro, gli Egizi sviluppano pratiche e rituali, nella speranza di realizzare magicamente ciò a cui loro nell’intimo aspirano.
Le divinità e le cosmogonie
Alle soglie del terzo millennio a. C., con l’unificazione dei due regni e l’origine della prima dinastia, le diverse concezioni religiose si vanno amalgamando; tuttavia le varie divinità conservano spesso i nomi originari e continuano a far riferimento agli originari luoghi di culto.
Sono frequenti le triadi, variamente formate.
A volte sono composte da un dio padre, una dea madre e un dio figlio; altre volte hanno relazioni più complesse, come nel panteon principale, in cui le tre divinità hanno funzioni indipendenti: Ra, capo degli dei, uscito dal mare primordiale ribollente, Iside protettrice delle persone in difficoltà e Seth, il dio malvagio del caos.
Accanto alle triadi esistono anche gruppi più allargati di divinità, come l'enneade venerata a Eliopolis.
In questa enneade si inserisce il mito di Osiride e Iside: Osiride, primogenito di Nut e Geb, sposò la sorella Iside e ricevette da Geb la ricca valle del Nilo; oltre che regnare con saggezza, si adoperò per civilizzare il resto del mondo, lasciando al governo dell’Egitto la moglie Iside.
Suo fratello, il malvagio Seth, a cui erano toccate le zone desertiche, non potendo spodestarlo, con inganno lo chiuse in una cassa e lo gettò nel fiume. Iside, dopo lunghe ricerche, lo ritrovò a Biblos, lo riportò in Egitto e grazie ai suoi poteri magici, agitando su di lui le ali di falcone riuscì a ridargli la vita per il tempo necessario a concepire il loro figlio Horus che avrebbe poi vendicato il padre.
Ripreso il trono usurpato, Horus trasmise l’eredità ai propri discendenti, i faraoni; questi sarebbero stati anche i capi spirituali, collaborati dai sacerdoti che a loro volta li avrebbero aiutati nella pratica del culto.
Col tempo Iside divenne la madre universale, rappresentata nell'atto di tenere sulle ginocchia il dio-bambino Horus, destinato a riscattare e salvare i seguaci di Seth, il simbolo del male.
Il mondo degli inferi e il destino delle anime
Dopo la morte, Osiride diviene il sovrano dell'oltretomba e simboleggia la continuazione della vita. Nella storia egiziana, da sempre se ne è coltivato il culto, nella speranza di assicurarsi la sua benevolenza e di poter entrare nella vita dove il dio regna.
Per gli Egizi, le anime (Ka) dopo la morte vagano affrontando innumerevoli rischi; per offrire loro un aiuto, nelle tombe si deponevano copie di formule magico-religiose, poi raccolte nel Libro dei Morti.
All'arrivo nel regno dei morti, il defunto è giudicato da Osiride; il dio, assistito da quarantadue altre divinità subordinate, pesa il suo cuore confrontandolo col peso di una piuma (psicostasia).
Se il defunto è stato un peccatore, il giudizio è sfavorevole ed egli è condannato alla fame, alla sete e ad orribili torture; se invece il suo cuore pesa meno della piuma, accede ai campi di Yaru, una versione festosa della vita terrena.
Il giudizio di Osiride e dei suoi assistenti può essere pilotato mediante le confessioni negative: si fa asserire al defunto di non aver commesso i peccati elencati nelle formule magiche da recitare. Questa confessione rende l’anima pura: il giudizio divino non dipende da quello che il defunto aveva realmente fatto nella vita, ma da quanto egli afferma al momento del giudizio.
Andando oltre l’apparente stranezza, potremmo forse scorgere l’espressione di un concetto profondo: il comportamento pratico potrebbe aver subito l’influenza di circostanze accidentali o di quelle che oggi chiameremmo pulsioni inconsce; ciò che veramente conta è l’ideale coltivato nel corso della vita e tradotto dalle confessioni, indipendentemente dal comportamento reale, spesso condizionato dalla fragilità umana e dalle spinte di fattori contingenti.
Il contenuto di queste confessioni ci mostra l’alto livello morale raggiunto dagli egizi: una lettura attenta mostra una piena coerenza - ed in certi casi l’identità - con i Dieci Comandamenti dati da Mosè a nome di Dio.
La svolta verso il monoteismo
Superando il disorientamento, del tutto comprensibile, causato dalla molteplicità degli dei, possiamo intravedere un sostanziale monoteismo polimorfo; per gli antichi egizi ogni divinità locale è solo la manifestazione di una stessa potenza divina, attraverso una delle sue tante forme.
Gli dèi simboleggiano la molteplicità delle forze che rendono possibili la vita e le funzioni della natura; a una riflessione più approfondita, la loro rappresentazione attraverso immagini zoomorfe o antropomorfe è solo un modo figurativo per facilitarne la comprensione.
In quest’ottica, gli dèi (neteru) potrebbero avere la funzione di rappresentare le differenti sfaccettature che compongono la medesima realtà che nei geroglifici è indicata come neter neteru, il Dio degli dèi, la divinità suprema che le include tutte.
Nei diversi miti aleggia proprio questa intuizione di fondo: la vera essenza della divinità sfugge alla comprensione umana, anche se sono presenti nel mondo i suoi diversi modi di apparire nel tempo e negli spazi di culto.
Verso la fine della XVIII dinastia (intorno al XIV secolo a.C.), il faraone Amenophis (chiamato anche Amenhotep) III diede corpo a questa intuizione iniziando una svolta religiosa in senso monoteista.
Si potrebbe anche pensare che fosse di questo tenore il pensiero religioso intorno al periodo dell'Esodo.
Questa svolta coraggiosa e profetica non durò a lungo; dopo la sua morte l'Egitto riprese l’antico ordinamento e tornò al culto delle vecchie divinità.
B. L’influenza iranica nel pensiero occidentale
A Oriente, nella valle dell’Indo si era sviluppata una tradizione millenaria, in una concezione quasi atemporale, sebbene in continua evoluzione: l’induismo.
Attraverso l’altopiano iranico, molte concezioni si facevano strada dando luogo a orientamenti autonomi che a loro volta evolvevano fino a permeare la cultura ellenistica.
Le radici induiste
La fusione fra credenze delle popolazioni nomadi e guerriere degli arii - penetrati verso il 1500 a. C. nella valle dell’Indo - e tradizioni religiose già consolidate nelle culture autoctone diede corpo alla grande tradizione induista.
La visione induista permea tutti gli aspetti della vita sacralizzandoli.
Tutto il pensiero è attraversato dal senso del conflitto e al tempo stesso dall’unione intima tra la bontà della regola sacra e il valore creativo del disordine, il desiderio e la rinuncia.
Sebbene sia considerata una religione politeista, dietro la molteplicità delle divinità, è presente l’intuizione di un principio unico in cui si riduce la molteplicità degli dèi.
La gente comune ha, però, bisogno di concretezza ed ecco le costruzioni di miti e di divinità che traducano le intuizioni dei pochi eletti e nello stesso tempo siano maggiormente accessibili alle masse.
Sempre per bisogno di concretezza, si elaborano costellazioni di divinità e riti per il loro culto.
Il Brahman - unità cosmica da cui tutto procede - si manifesta attraverso il Dotato di tre aspetti, Trimūrti in sanscrito:
Brahmā, divinità maschile centrale, demiurgo di Brahman.
Viṣṇu, il dio che sostiene l’esistenza dell’universo e ne governa l’armonia.
Śiva, variamente descritto nelle diverse parti dei Veda. Dio di vertigine, di oscura profondità e di illuminazione folgorante, di inquietudine e di sapienza, di morte e di liberazione.
Nel corso dei secoli le divinità o le loro incarnazioni si sono moltiplicate o accorpate; se ne contano circa duemila, alcune delle quali sono esaltate di volta in volta come la sola vera.
La trasmissione dei loro messaggi e la mediazione con loro è stata da sempre affidata alla classe sacerdotale.
Tra l’VIII e il III secolo a. C. si va delineando un pensiero filosofico che richiama all’interiorità e porta all’esperienza di una ricerca mistica come superamento del formalismo rituale.
L’anima, in sanscrito ātman, il soffio del vento, è l’essenza intima della coscienza, scintilla dell’universale in ogni individuo: vero sé profondo e ineffabile, anch’esso eterno nella purezza incondizionata dai mutevoli modi dell’esistenza.
Realizzare quest’idea significa liberarsi della propria individualità empirica e mettere fine all’eterno ritorno nel mondo.
Non è nata col corpo e non perisce con esso: trasmigra da un’esistenza a un’altra guidata dalla logica ferrea del karman.
La via della salvezza è indicata nello studio e nella meditazione con la guida di un maestro, il guru, fino a raggiungere l’unione mistica col Brahman e realizzare l’identità profonda con l’Assoluto.
L’Iran, cerniera tra Mesopotamia e Valle dell’Indo
Molti concetti induisti sono ripresi e rielaborati dalla tradizione di Zarathustra, radicata nell’altopiano iranico.
Zarathustra (o Zoroastro), fondatore del Mazdeismo, si proclama profeta dell’essere supremo Ahura Mazdā (Spirito che crea con il pensiero), che viene così a soppiantare le numerose divinità preesistenti.
La sua dottrina ha una valenza etica di un certo spessore. Egli si erge a difesa degli umili: gli allevatori, in opposizione alle società d’uomini, espressione dell’aristocrazia guerriera, dedita al combattimento, alla razzia e a riti feroci e orgiastici, nei quali si veneravano divinità bellicose e terrificanti.
I pilastri del nuovo messaggio profetico sono costituiti dall’impegno etico e dall’attesa escatologica.
L’impegno etico, è sintetizzato dalla triade buon pensiero, buone parole, buone opere.
I sacrifici cruenti sono banditi, poiché gli animali sono venerati in quanto creature volute dalla divinità per servire l’uomo e per mantenere l’equilibrio naturale.
Sul piano più specificamente dottrinale, Zarathustra predica il monoteismo puro, ma nello stesso tempo, per dare una spiegazione della presenza del male, concede un certo spazio ad una sorta di dualismo che potremmo chiamare etico.
Gli insegnamenti sono contenuti nell'Avestā, che raccoglie contributi di diversa origine, stratificati nel corso dei secoli; la parte più antica, le Gāthā (canti religiosi), è attribuita allo stesso Zarathustra.
Ahura Mazdā ha creato il mondo in sei fasi.
La prima coppia di esseri umani furono Maŝya e Maŝyana. Durante il diluvio universale comandò a Yima di costruire Vara (un recinto-palazzo) per salvare uomini ed animali dalla catastrofe.
Ahura Mazdā ha creato anche due spiriti gemelli: Spenta Mainyu (Spirito Santo) e Angra Mainyu (Spirito della Menzogna).
Sebbene lo spirito del bene (Spenta Mainyu) e quello malefico (Angra Mainyu) siano entrambi creati da Ahura Mazdā, la libera scelta di Angra Mainyu verso la distruttività non può far considerare il dio responsabile della comparsa del male: la responsabilità etica è solo di chi l’ha scelto liberamente.
L’antagonismo tra bene e male determina un conflitto cosmico, che coinvolge anche l’uomo, a cui è richiesto di scegliere se seguire la via del bene e della giustizia (Aša) che porterà alla felicità (Ušta) o la via del male che apporterà infelicità.
I seguaci della prima via raggiungeranno la Vita e la Migliore Esistenza mentre i seguaci della seconda perverranno alla Non-Vita e alla Peggiore Esistenza.
Dopo la morte, il cadavere non viene inumato per non contaminare la terra; viene posto in alto sopra costruzioni in pietra (torri del silenzio), dove gli avvoltoi lo scarnificano e librandosi in alto lo portano in cielo. L’anima attraversa un ponte (Chinvato Peretu) sul quale le azioni sono pesate: se quelle buone superano quelle cattive, l’anima può attraversarlo e giungere in paradiso; se prevalgono quelle cattive, precipita giù nell’inferno, luogo temporaneo di pene. Alla fine dei giorni, quando il male sarà definitivamente sconfitto, il cosmo verrà purificato in un bagno di metallo fuso e anche le anime dei peccatori saranno riscattate dall'inferno, per vivere in eterno, entro corpi incorruttibili, alla presenza di Ahura Mazda.
Nel corso dei secoli il Mazdeismo si è evoluto in varie forme e ha subito profonde trasformazioni, permeando molti ambienti del mondo ellenistico.
Il bisogno di far riferimento a figure concrete, pur non intaccando il monoteismo, portò a riprendere vecchie divinità e a dar loro un ruolo.
Una di queste fu Mitra che si pensa abbia ispirato il Mitraismo, la religione misterica molto diffusa nell’impero romano intorno al primo secolo.
C. Cinque secoli di luce
La parte centrale del primo millennio a. C., dall’ottavo al terzo secolo - il periodo chiamato da Jaspers assiale perché rappresenta uno spartiacque dell’umanità - è caratterizzata da un balzo in avanti del progresso nelle varie parti del mondo: si tracciano le basi sociali, etiche, religiose, si strutturano i grandi sistemi filosofici, prendono corpo gli orientamenti morali che si consolideranno nei secoli seguenti, affiorano le intuizioni religiose come via di salvezza dell’uomo.
In Grecia fioriscono le grandi opere letterarie e importanti realizzazioni artistiche, sorge la prima forma di democrazia nella storia occidentale, si strutturano i grandi sistemi filosofici, si organizzano i culti misterici.
In Italia sorge Roma e poi la prima repubblica.
In Cina il Confucianesimo con i suoi insegnamenti basati sull'etica personale e politica, sulla giustizia, sul rispetto dell'autorità familiare e gerarchica, sull'onestà e la sincerità influenza profondamente il pensiero e lo stile di vita cinese, coreano, giapponese e vietnamita. Laozi, considerato il fondatore del Taoismo, è anch’egli una delle maggiori figure della filosofia cinese.
In India, Vardhamāna Mahāvīra fonda il giainismo; Siddhārtha Gautama, meglio conosciuto come Buddha, rappresenta una delle più importanti figure spirituali e religiose dell'Asia.
In Iran si diffondono i principi etici predicati da Zarathustra.
Tra gli israeliti prende corpo e si sistematizza la tradizione ebraica che costituirà il punto di partenza del Cristianesimo.
Tutto converge verso il superamento delle culture tribali e l’avvio della ricerca del significato della vita e dei principi della convivenza sociale.
D. Occidente e Medioriente all’inizio del primo secolo
L’inizio del primo secolo può essere considerato, con Augusto, il periodo aureo dell’impero romano e nello stesso tempo un periodo di pace.
Politicamente, la dominazione romana si estende in tutto il bacino del Mediterraneo, ma - coerentemente alla propria vocazione - si tratta di dominio militare; Virgilio lo esprime chiaramente facendo dire, allo spirito di Anchise, nel sesto canto dell’Eneide:.
Excudent alii spirantia mollius aera |
Altri plasmeranno meglio statue palpitanti, |
Di fatto, sul piano culturale, il mondo ellenico esercita molta influenza anche su Roma, tanto che Orazio, a ragione, scrive:
Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio. (Epistulae, lib. II, I) |
La Grecia vinta vinse il fiero vincitore e portò le arti nell’incolto Lazio. |
Dalla lontana valle dell’Indo, attraverso l’altopiano iranico, si fanno sentire echi di tradizioni diverse che tendono ad amalgamarsi con la cultura occidentale.
In un angolo sperduto del Medio Oriente, un piccolo popolo si dibatte per mantenersi estraneo a questo processo di globalizzazione.
Come in un movimento concentrico, dalle varie parti del mondo affiorano intuizioni, variamente espresse, secondo le tradizioni e le culture locali; tutto fa pensare alla convergenza verso la realizzazione di un piano tracciato da un’intelligenza arcana e infinita.
Lo strapotere dell’impero romano
La fine del primo secolo avanti Cristo e l’inizio del primo secolo dopo Cristo coincise col principato di Cesare Ottaviano Augusto (29 a. C. – 14 d. C.).
Chiuse le porte del tempio di Giano, in segno della pace raggiunta dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, Ottaviano iniziò il riordinamento delle conquiste fatte da Pompeo, Cesare e da altri condottieri.
A differenza della politica cosmopolita ed ellenizzante di Cesare, Ottaviano si orientò per la supremazia di Roma e dell'Italia, considerando le terre conquistate province dell’impero romano, sia pure dotate - secondo i casi - di una certa autonomia.
Le 25 legioni dislocate nei punti nevralgici costituivano una garanzia contro ogni velleità d’emancipazione dei singoli popoli dominati.
Sul piano personale, pur restando fedele alla costituzione repubblicana, Ottaviano concentrò su di sé il potere assoluto attraverso un cumulo di cariche militari, civili e religiose liberamente conferite dal senato in tempi diversi.
Si delineava, in tal modo, la carica di imperatore come monarca assoluto, anche se non formalmente dichiarata; questo stato di cose durò per circa due secoli, finché con Diocleziano la parvenza repubblicana, resa sempre più vuota, tramontò definitivamente.
L’uso della forza e della violenza era il motivo dominante e pervadeva l’intera vita sociale. Il diritto, di cui Roma era fiera, valeva solo per i cittadini romani; i vinti, gli schiavi, i condannati potevano essere legalmente seviziati e uccisi; ciò costituiva anche motivo di spettacolo nei circhi, nei quali erano dati in pasto alle fiere o erano obbligati a combattere fra loro come gladiatori.
Sul piano religioso, non erano rare le credenze di connubi tra divinità ed esseri umani o la deificazione di uomini, anche per auto attribuzione.
La cultura ellenica
Analogamente al Lazio, che diede il nome alla civiltà romana e latina, la Grecia antica (¹ `Ell£j) comprendeva un territorio abbastanza circoscritto, nella parte strettamente peninsulare della regione: la Beozia, l’Attica e il Peloponneso.
Malgrado le costanti lotte tra le varie città per la conquista dell’egemonia, già nel V secolo a. C. - secolo di Pericle - l’Attica aveva raggiunto con Atene un elevato livello culturale e un ordinamento democratico, cosa insolita in quel periodo storico.
Il successivo crescente declino politico non impedì che il livello culturale raggiunto le facesse mantenere costantemente un prestigio indiscusso.
Paradossalmente, le sconfitte militari e le dominazioni subite, abbattendo le barriere nazionali, costituirono un efficace veicolo per l’esportazione della sua cultura.
Nemmeno l’egemonia di Roma, culminata con la battaglia di Azio, nel 31 a. C., modificò sensibilmente l’influenza culturale greca.
Sul piano religioso, le divinità - come quelle romane - avevano caratteristiche umane o erano eroi divinizzati.
Accanto alle divinità tradizionali greche, specialmente nelle grandi città portuali, come Corinto e Patrasso, erano venerate quelle locali o altre d’importazione dal Mediterraneo orientale.
Come nella tradizione romana, vi erano articolate parentele fra gli dèi e anche unioni fra divinità ed esseri umani con conseguente nascita di eroi o di altre divinità.
Parallelamente alla religiosità popolare, si andavano sviluppando correnti di pensiero sempre più articolate.
Col sorgere della prima democrazia, ad Atene, si era aperta la strada ai grandi sistemi filosofici: Socrate, Platone, Aristotele rappresentano pietre miliari nell’evoluzione del pensiero.
Da Atene, il centro culturale si spostò ad Alessandria, che non costituiva soltanto il più vasto emporio aperto al commercio del mondo antico, ma anche il luogo di maggior scambio di idee. In essa si incontravano tutte le razze, le religioni, le credenze, i sistemi filosofici.
Verso Oriente, Antiochia costituiva un altro polo culturale.
Più a sud, anche la regione giudaica con la sua religione monoteista faceva sentire un notevole peso. L’esponente di maggiore spicco di questo pensiero fu Filone (20 a. C. – 45 d. C.), il noto rappresentante della scuola greco-giudaica fondata ad Alessandria un secolo prima (nel 150 a. C.) da Aristobulo, con l’intento di conciliare l’insegnamento della Bibbia con quello dei sapienti pagani.
Fra gli stessi pagani, Plutarco (46 – 120 d. C.) tentò di dare un’interpretazione razionale delle divinità classiche, fondendo, in una specie di sincretismo religioso, elementi mutuati dai culti nazionali greci ed egizi e il dualismo orientale.
Seguì uno slittamento degli interessi verso un coinvolgimento della vita individuale nel rapporto con la divinità, in forme di misticismo, variamente articolate.
Nelle nuove concezioni filosofiche, si profilava il predominio dell’aspetto religioso: la rappresentazione trascendente della divinità e la presenza di una molteplicità di intermediari.
In questo processo non fu estraneo il pensiero consolidato nei popoli orientali che lentamente faceva emergere nuove esigenze sul piano della spiritualità.
La lingua comune e il diffondersi della cultura ellenistica agevolava il sincretismo fra le varie correnti che andavano emergendo.
L’evoluzione verso il misticismo
Nei popoli primitivi, la religiosità si manifestava come esperienza emotiva spontanea nel rapporto con la divinità. Possiamo ipotizzare una qualche forma di partecipazione mistica con la natura in cui il divino è semplicemente presente ovunque e in ogni cosa: nei monti, nei fiumi, nei boschi …
Ne sono una testimonianza i miti che hanno come oggetto ninfe, satiri o entità equivalenti.
Col passare del tempo, le mitologie assumevano i modelli delle organizzazioni sociali delle rispettive epoche: le rappresentazioni delle divinità e dei loro comportamenti, spesso non del tutto divini, riflettevano le devianze e le lotte per la conquista e il mantenimento del potere.
Nell’Europa meridionale ha avuto un peso prevalente la mitologia di origine greca, passata al mondo romano, sia pure con attribuzione di nomi differenti per le varie divinità.
Il panteon greco-romano rifletteva una concezione aristocratica della società, mentre nel mondo agricolo permaneva una forma di religiosità maggiormente legata alla divinizzazione della natura e dei suoi cicli; i miti seguivano più da vicino la vita dei campi.
La vegetazione, che in inverno apparentemente muore per rinascere in primavera, faceva vagamente intuire, anche per l’uomo, una prosecuzione di vita, sia pure in modo diverso, dopo un'apparenza di morte.
Ai riti legati originariamente al mondo agricolo, col tempo si affiancarono riflessioni più evolute e avvolte in un clima di mistero; si trattava di elaborazioni che coinvolgevano la vita intima dei partecipanti.
Erano, però, intuizioni di pochi, che potevano essere condivise fra gli aderenti, ma difficilmente accessibili alla massa.
Queste riflessioni sfociarono in una differenziazione nell’espletamento dei riti: la gente comune, intenta a ingraziarsi le divinità, continuava le celebrazioni connesse con il susseguirsi delle stagioni, mentre una cerchia ristretta si dedicava a meditazioni e a pratiche mantenute rigorosamente segrete.
Proprio per la caratteristica di segretezza si cominciò a parlare di misteri.
Le norme che regolavano il segreto erano rigorose, al punto da prevedere la pena di morte per gli iniziati che avessero rivelato i riti e la confisca dei beni per coloro che li spiassero.
È questo il motivo per cui le notizie a noi giunte sono frammentarie.
Nell'accostarci a questo orientamento, prendiamo in considerazione:
- I principali culti misterici.
- Le caratteristiche che i culti misterici tendevano ad assumere intorno al primo secolo.
- La connessione col cristianesimo nascente.
Principali culti misterici
Ai misteri di origine greca - eleusini, dionisiaci, orfici, di Samotracia - se ne affiancarono altri, come quelli di Attis, Cibele, Iside e Osiride, Adone, Mitra e altri ancora.
Dal mondo greco, a partire dal III sec. a.C., i culti misterici si propagarono verso l'Occidente.
A Roma la loro affermazione subì alterne vicende, secondo il susseguirsi delle tendenze politiche, culturali e religiose.
Per gli austeri Romani, alcuni culti erano visti con sospetto: potevano suscitare, nella gioventù, un certo infiacchimento, contrario allo spirito virile e combattivo che aveva caratterizzato il periodo delle conquiste.
Le correnti sono diversificate; ci soffermeremo su alcune, considerate fra le più significative, anche perché seguono un filo conduttore: i misteri eleusini, dionisiaci, orfici, isiaci e il mitraismo.
Misteri eleusini
Gli orientamenti misterici trovano le lontane origini nei misteri eleusini (VII sec. a.C.), aventi come riferimento Demetra, sebbene il culto della dea e il rapporto intimo con la natura appaiano ancora più antichi.
Il culto della dea e i miti connessi, divenuti ufficiali, acquistarono vasta notorietà e si diffusero nelle colonie greche e nel mondo latino; a Roma questa divinità era conosciuta come Cerere, la dea che legò il suo nome ai cereali.
Lentamente le pratiche assunsero la forma di riti, in parte svolti segretamente e circoscritti a cerchie di iniziati.
In origine non si parlava di must»ria (mystêria), ma di ˑÔrgia (orgia); oggi questo termine ha acquisito un significato diverso, ma si trattava di riti sacri che si svolgevano spesso in uno stato di esaltazione - a volte potenziato da sostanze allucinogene - interpretato come possessione divina.
I riti solitamente comprendevano cerimonie magiche, pratiche di purificazione o anche sacrifici, abluzioni, digiuni, astinenze, banchetti sacri, danze, ...
La mitologia presenta Demetra come figlia di Crono e sorella di Zeus; questi la rese madre di Kore (KÒrh, fanciulla) o Persefone, divenuta nel mondo romano Proserpina.
Mentre Kore raccoglieva fiori insieme alle figlie di Oceano, sprofondò nella terra, inghiottita come un seme e si trovò negli Inferi, il regno di Ade (Plutone nel mondo latino).
Il dio la rapì e la trattenne con sé; Demetra disperata vagò in cerca della figlia, finché non la ritrovò e per intervento di Zeus ottenne che ogni anno, per sei mesi, ritornasse con lei sulla terra, determinando il risveglio della vegetazione.
I misteri rappresentavano il mito del ratto di Kore in un ciclo di tre fasi, la discesa (la perdita), la ricerca e il ritorno per ricongiungersi alla madre.
Il mito di Kore aprì la strada al concetto dell'immortalità dell'anima, promessa agli adepti.
Il pensiero neoplatonico sulla reincarnazione delle anime, portò, poi, una diversa prospettiva: nei mysteria eleusini, come negli altri, alla beatitudine dell'Ade, subentrò quella del cielo; i mysteria permettevano di spezzare il ciclo delle reincarnazioni, perché l'anima potesse ritornare per sempre nelle sue sedi celesti.
La fine ufficiale dei misteri eleusini avvenne nel 391 d.C. in seguito al decreto dell'imperatore Teodosio che dichiarava il Cristianesimo unica religione dell’impero; la cittadina e il tempio furono poi distrutti nel 395 dai Visigoti, cristiani seguaci dell'Arianesimo, sotto la guida di Alarico.
Misteri dionisiaci
Anche se di origini traciche, il culto e i misteri dionisiaci sono strettamente connessi con quelli eleusini, dai quali assimilarono molte caratteristiche.
Il riferimento è a Dioniso (Bacco latino), la divinità più giovane del panteon greco, dio dell'uva, del vino e della vegetazione.
Il mito di Dioniso, è uno dei più ricchi, complessi e carichi di simbolismi. A differenza degli altri, il culto non prevedeva luoghi determinati; era aperto alla partecipazione di tutti e riviveva le fasi salienti della vita del dio.
Simboleggiando il suo vagare, donne invasate, con fiaccole, al suono di flauti e strumenti a percussione, peregrinavano, di notte, per i boschi e le campagne, abbandonandosi a uno stato di esaltazione mistica.
Il dio che torna dalla morte alla vita era visto come il liberatore del frenetico flusso vitale che pervade ogni cosa.
La sua follia era rivissuta nelle cerimonie attraverso lo stato di ebbrezza, come esaltazione mistica ed estasi. L’eccitazione e la frenesia erano considerate un preludio alla comunione con lo spirito divino dal quale le partecipanti si sentivano invase.
Misteri orfici
L'origine dell’orfismo risale a un'epoca incerta; la nascita è attribuita a Orfeo, sacerdote del culto di Dioniso e leggendario cantore solitario, capace di incantare col suono fascinatore della sua lira non solo gli animali, ma tutta la natura.
L'orfismo, per le sue caratteristiche, si impone fra le correnti più significative delle religioni misteriche.
Pur ispirandosi ai misteri eleusini e dionisiaci e alla saggezza egizia e mesopotamica, l’orfismo propone una propria dottrina e un proprio sistema sapienziale.
In esso, la figura di Dioniso è rielaborata; cede il passo al dio più pacato, ucciso per questo dalle forze del male, ma poi risuscitato e destinato a regnare sull'universo.
I riti orfici hanno uno scopo purificatorio e addolciscono gli aspetti violenti e cruenti del culto di Dioniso; al vino, alla carne e alle danze orgiastiche subentrano offerte vegetali e di incenso, accompagnate da danze e canti liturgici.
Il Dioniso dell'orfismo, con le sue emozioni, le sue sofferenze e la sua morte ingiusta (secondo uno dei miti), è visto ora come un dio più vicino al genere umano.
L'anima umana è prigioniera nel corpo; compito dell'uomo è uscire da questa tomba di malvagità per raggiungere il divino che gli è proprio. I misteri orfici indicano, negli esercizi ascetici, nella rinuncia e nella vita virtuosa la via di salvezza.
L'elevato concetto etico dell'orfismo coinvolge l’intero modo di vivere, dalla pulizia personale, alla sobrietà nel vestire e nell'alimentazione, all’aspirazione alla giustizia e alla legalità.
L’iniziato orfico non si adagia nel rapporto con il divino garantito dalla religione ufficiale e dal culto, ma aspira a una relazione mistica privilegiata.
Misteri di Iside e Osiride
Il culto di Osiride ha come presupposto che la morte fisica non è la fine di tutto ma il passaggio a un’altra realtà che attende l'intero genere umano e alla quale potranno accedere non solo gli iniziati, ma anche coloro che si propiziano le divinità.
Alle originarie pratiche di sostegno in favore del defunto, in vista del giudizio dopo morte, gradualmente subentrano rituali da compiere in vita per prepararsi alle prove da sostenere nel passaggio all’aldilà. Dai riti funerari si passa a quelli misterici di iniziazione.
Sostanzialmente sono ispirati al ricordo osiriano della morte e risurrezione; come il dio Osiride è morto per mano del fratello Seth, incarnazione del caos, ed è resuscitato per opera di Iside, incarnazione del principio femminile, l’individuo in virtù di certe pratiche di carattere religioso-magico, giunge a una simbolica morte volontaria, cui segue, per l’intervento della dea, una rinascita e un nuovo genere di vita dell’iniziato, pegno sicuro di salvezza.
Mitraismo
Il culto di Mitra compare nella religione induista insieme con Varuna; negli inni vedici, Mitra, all’alba, genera la luce.
Non è chiaro quanto vi sia in comune fra il Mitra del mazdeismo e quello a cui fa riferimento il mitraismo occidentale; la continuità con l’antico culto iranico appare piuttosto labile, limitata al nome e appena a quanto occorreva per dare una parvenza esoterica al culto dei misteri. È certo, però, che molti concetti della religione di Zarathustra sono ripresi da questa religione misterica.
Forse a favorire il successo di questa religione misterica, nei vari ceti, contribuirono più ordini di fattori: il carattere vittorioso del dio, il contenuto morale piuttosto elevato e l'idea dell'esistenza dell'anima, con la prospettiva di pervenire all'aeternitas.
Malgrado la sua ampia diffusione, il mitraismo ha conservato le caratteristiche delle religioni iniziatiche e agli adepti era fatta proibizione, sotto giuramento, di rivelare e divulgare i riti officiati; proprio per questo non ha tramandato un corpo di testi scritti e si conosce ben poco dei contenuti specifici.
Come per le altre divinità, attorno a Mitra si sono costruiti dei racconti che mettono in risalto le sue vicissitudini e ne fanno intuire le prerogative.
Secondo una delle leggende, il dio decide di venire al mondo incarnandosi in una vergine e vede la luce in una grotta.
Secondo alcuni, un tempio del culto mitriaco - a Kangavar, nell’attuale Iran occidentale - prende lo spunto da questa leggenda: sarebbe dedicato ad “Anahita, la vergine madre del signore Mithras”.
Alla conclusione delle sue imprese, Mitra a 33 anni dalla sua incarnazione, con l'aiuto del Sole, abbandona il mondo terreno per tornare in cielo, da dove continua a proteggere gli esseri umani.
I festeggiamenti per la sua nascita avvenivano il 25 dicembre, in prossimità del solstizio d’inverno; come dio della luce, con la sua venuta, i giorni cominciano ad allungare la loro durata.
Nei riti del culto mitraico, la parte centrale è il sacrificio, forse simbolico, del toro, la cui morte promuove la vita e la fecondità dell'universo; il cerimoniale culmina con un banchetto a base di pane, prodotto dal grano, simbolicamente il midollo del toro e forse vino, simbolicamente il suo sangue.
L'iniziazione era riservata a soli uomini; progressivamente si accedeva ai sette gradi della gerarchia (corvo, crisalide, soldato, leone, persiano, messaggero del sole, padre). Il pater, sommo grado della gerarchia, era autorizzato a presiedere il culto e rappresentava il dio sulla terra.
La pratica del culto, come per le altre religioni misteriche, scomparve in seguito al decreto di Teodosio, nel 391.
Come è facile osservare, vari elementi e riferimenti temporali coincidono con quelli cristiani ed è difficile determinarne per ciascuno di essi la priorità. Si è trattato certamente di una influenza reciproca, ma è più probabile che sia stato il mitraismo a far propri alcuni contenuti del cristianesimo. Inoltre il mitraismo sembrerebbe avere più analogie con le sette gnostiche e manichee del tempo che con la tradizione cristiana ufficiale.
* * *
I concetti sommariamente espressi ci inducono a riflessioni su alcuni aspetti che caratterizzano le correnti del misticismo intorno al primo secolo.
Ripercorriamo gli aspetti principali.
Anche se i riti restavano segreti, la grande diffusione dei culti misterici permeò il modo di pensare dell’epoca ed ebbe non poca influenza sul pensiero filosofico.
Oltre allo spostamento dalla pura razionalità alla fede in qualcosa di rivelato da un’entità superiore, elementi comuni fra gli orientamenti emergenti sono l’aspetto etico e la salvezza eterna attraverso l’unione con questa entità.
Dalla propiziazione all’elevazione
Negli orientamenti del misticismo, fin dalle origini, la religiosità tende a superare la concezione primitiva di pratiche propiziatorie, al fine di ottenere benevolenza, protezione e favori dagli dèi; insiste piuttosto sulla modifica del comportamento per renderlo conforme all’ideale proposto e in tal modo predisporre l’iniziato, cominciando dai riti di purificazione, all'unione intima con la divinità.
Dall’elaborazione umana alla rivelazione divina
Tutto questo non è considerato una pura conquista umana, ma qualcosa rivelata dall’alto, dagli dèi stessi.
Non a caso, nei vari miti, è sempre una divinità all’origine dell'iniziazione; in seguito sono gli iniziati a trasmettere il carisma ricevuto, in modo da mantenere una continuità con il dio che inizialmente l’ha conferita.
Dai benefici presenti alla proiezione nella aeternitas
Fulcro dell'azione iniziatica è la risposta ai problemi esistenziali concernenti la vita e la morte. Attraverso vari stadi di iniziazione, gli adepti pervengono all'unione con la divinità, che, morta e risorta, garantisce loro il superamento della limitazione individuale. Resurrezione significa abbandonare, con la morte, questo mondo considerato fittizio per raggiungere una realtà superiore.
Vari culti misterici, infatti, hanno come cardine la vita, la passione, la morte e la resurrezione di una divinità con la quale l'iniziato aspira a identificarsi.
La ricaduta in una prassi di vita
Il compito dell’iniziato non si limita a far proprio un corpus dottrinale, ma è quello di realizzare un'esperienza da vivere; simboli ed eventi rappresentano un mezzo di salvezza.
La via proposta per il raggiungimento di questa meta spirituale, teorizzata dai filosofi, è il distacco dalle passioni e l'amore disinteressato.
Altri proponevano una vita di preghiera, restrizioni e rinunce, a somiglianza dei monaci medievali.
Verso l’attesa di un salvatore
Le tradizioni misteriche, alle quali abbiamo accennato, avevano determinato una crescente crisi che investiva l'intero ordinamento culturale e sociale, creando l'esigenza di radicali cambiamenti.
La percezione dell'impossibilità di determinarli puntando su risorse autonome, spingeva facilmente a rifugiarsi nella speranza di un intervento da parte di un essere con poteri non rinvenibili nel sistema in crisi.
Un esempio tipico di questo bisogno si riscontra nella tradizione ermetica; essa preconizzava l'avvento del Poimàndres (pastore degli uomini), molto vicino al Logos di cui parla il Quarto Vangelo.
Nella tormentata storia degli Ebrei, era stata costantemente presente la speranza nell'avvento di un salvatore; nel tardo giudaismo quest'attesa prese corpo nella figura del Messia.
L'attesa di un salvatore è anche presente in altre tradizioni del tutto estranee a questi filoni, come il mazdeismo e il buddhismo mahayanico.
Nel mondo latino, in alcuni ambienti stoici e pitagorici, si trovano testimonianze di attesa di profondi cambiamenti: si parla del magnus annus (grande anno) in cui il sole, gli astri e i pianeti del sistema solare tornano alla posizione iniziale dopo aver percorso le rispettive loro orbite.
Una testimonianza di queste aspettative diffuse si trova anche nella quarta Bucolica di Virgilio, che celebra la nascita del puer (bambino, forse il figlio di Asinio Pollione), alla quale connette la nuova età dell’oro:
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
(L’ultima epoca del responso di Cuma è giunta;
nasce da capo il grande ordine dei secoli).
E. Gli ebrei:
saranno “un popolo senza nazione”
Un gruppo di nomadi fra le steppe di un deserto inospitale aspirava a insediarsi in un territorio ubertoso.
Giunto, sotto la guida di Mosè, nelle vicinanze del paese dei Cananei, inviarono esploratori e dal loro entusiastico racconto dedussero che quella doveva essere la terra promessa - da Yahweh, il loro Dio nazionale - ai loro padri; a loro non restava che conquistarla.
Lo stesso Yahweh, per sostenerli, scendeva in campo contro quei popoli e le loro divinità, ordinando il genocidio e punendo in modo esemplare ogni atto di clemenza. Poco importa se nel Sinai aveva comandato di non uccidere e di non appropriarsi delle cose degli altri e se gli esecrati nemici erano i legittimi e pacifici possessori dei loro beni e delle loro terre.
Mosè teorizzò lo sterminio di massa e stabilì le norme per l’attuazione.
Col tempo, questo piccolo popolo volle costruirsi una storia, che legittimasse le sue origini e lo riscattasse dalla condizione penosa alla quale le contingenze storiche lo avrebbero trascinato.
Rivendicò in Abramo, a cui Dio aveva promesso quella terra, la sua origine ed elaborò racconti mitizzati, nel tentativo di ricostruire le vicende passate.
Fissò tutto nelle scritture che rese sacre e immutabili: è la Bibbia, parola di Yahweh, passata, nella sua integrità, al cristianesimo.
In essa, accanto a principi e norme di saggezza, troviamo altre pagine che stridono con la sensibilità attuale.
I testi della Bibbia che narrano questi comandi divini sono poco conosciuti tra il popolo cristiano; non sogliono essere letti, né citati nelle liturgie, ma sono ugualmente considerati parola di Dio. Ci sembra utile non perderli di vista per riflettere sull'interpretazione da dare a quella che consideriamo parola di Dio.
Fin dal Levitico Dio, come ricompensa per la fedeltà alle sue leggi, promette la vittoria sui nemici:
…
Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento, cento di voi ne inseguiranno diecimila e i vostri nemici cadranno dinanzi a voi colpiti di spada.
(Lv 26, 7-8)
Si parla di nemici, ma chi saranno questi nemici?
A volte semplicemente l’oggetto di rappresaglie, come i Madianiti, rei di aver usato alcune delle loro donne per adescare gli Israeliti; leggiamo nel Libro dei Numeri:
…
Marciarono dunque contro Madian, come il Signore aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi.
…
Mosè si adirò contro i comandanti dell'esercito …
… uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi. (Nm 31, 7-18)
…
Parola di Dio?
Mosè va oltre, considera nemici i tranquilli abitanti del territorio che ha di fronte; nel Deuteronomio, parlando in nome di Dio, dà le disposizioni per la guerra di conquista, considerata guerra santa, imponendo la legge dello sterminio:
Quando il Signore, tuo Dio, …
… le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà. (Dt 7, 1-2)
Parola di Dio?
Poi continua, differenziando il trattamento da riservare a vicini e lontani; dai più distanti si dovrà pretendere la sottomissione e il servizio:
Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà.
Ma se non vuol far pace con te e vorrà la guerra, allora l'assedierai.
Quando il Signore, tuo Dio, l'avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi, ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda. Mangerai il bottino dei tuoi nemici, che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato.
Così farai per tutte le città che sono molto lontane da te e che non sono città di popolazioni a te vicine. (Dt 20, 10-15)
Per contro, gli abitanti delle terre nelle quali intenderanno insediarsi dovranno essere sterminati:
Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun vivente, ma li voterai allo sterminio: cioè gli Ittiti, gli Amorrei, i Cananei, i Perizziti, gli Evei e i Gebusei, come il Signore, tuo Dio, ti ha comandato di fare, ... (Dt 20, 16-17)
Parola di Dio?
Secondo il Libro che da lui prende il nome, Giosuè eseguì fedelmente gli ordini che Dio aveva dato a Mosè:
Dopo la morte di Mosè, servo del Signore, il Signore disse a Giosuè, figlio di Nun:
«Mosè, mio servo, è morto. Ora, dunque, attraversa questo Giordano tu e tutto questo popolo, verso la terra che io do loro, agli Israeliti. Ogni luogo su cui si poserà la pianta dei vostri piedi, ve l'ho assegnato, come ho promesso a Mosè». ... (Gs 1, 1-3)
Il Libro prosegue descrivendo con dovizia di particolari la conquista e i genocidi compiuti per garantire una completa pulizia etnica.
Gerico fu la prima città vittima, al culmine di un'articolata liturgia guerriera che mette in risalto come l’esito dell’impresa sia da attribuire esclusivamente all’intervento di Dio:
Il popolo lanciò il grido di guerra e suonarono le trombe. Come il popolo udì il suono della tromba e lanciò un grande grido di guerra, le mura della città crollarono su se stesse; il popolo salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e si impadronirono della città.
Votarono allo sterminio tutto quanto c'era in città: uomini e donne, giovani e vecchi, buoi, pecore e asini, tutto passarono a fil di spada.
(Gs, 6, 20-21)
Fu poi la volta di Ai, conquistata con un tranello; ne seguì il massacro e la completa distruzione:
Il Signore disse a Giosuè: Non temere e non abbatterti. Prendi con te tutti i guerrieri. Su, va' contro Ai. Vedi, io consegno nella tua mano il re di Ai, il suo popolo, la sua città e il suo territorio.
Tratta Ai e il suo re come hai trattato Gerico e il suo re; tuttavia prenderete per voi il suo bottino e il suo bestiame. (Gs, 8, 1-2)
Quando gli Israeliti ebbero finito di uccidere tutti gli abitanti di Ai, che li avevano inseguiti in campo aperto nel deserto, e tutti fino all'ultimo furono passati a fil di spada, tutti gli Israeliti rientrarono in Ai e la colpirono a fil di spada.
Tutti i caduti in quel giorno, uomini e donne, furono dodicimila, tutta la popolazione di Ai.
Giosuè non ritirò la mano che brandiva il giavellotto, finché non ebbero votato allo sterminio tutti gli abitanti di Ai.
Gli Israeliti trattennero per sé soltanto il bestiame e il bottino della città, secondo l'ordine che il Signore aveva dato a Giosuè. (Gs 8, 23-29)
Poi ancora la sconfitta di una coalizione di cinque città amorree; furono tutti massacrati e non toccò sorte migliore ai loro capi che durante la fuga si erano nascosti in una grotta.
Segue un monotono elenco delle altre città conquistate e dei massacri compiuti.
Anche in seguito, le rare volte in cui venivano trasgrediti gli ordini crudeli attribuiti a Dio, intervenivano esemplari punizioni; fu il caso di Saul, primo re d’Israele, che aveva risparmiato la vita al re amalecita Agag; col suo gesto segnò il proprio declino, culminato con la morte insieme ai figli, in una battaglia contro i Filistei.
Anche queste atrocità sono parola di Dio?
Nel Salmo 106 (105) si recriminano agli Israeliti le infedeltà che hanno provocato i castighi del Signore; la litania delle azioni peccaminose contestate nell’insediamento nella terra promessa comincia proprio con la trasgressione dell’ordine di sterminio:
Non sterminarono i popoli
come aveva ordinato il Signore.
Non c’è nemmeno da stupirsi se ciò sfoci in un’apologia orgogliosa e compiaciuta dell’usurpazione e del genocidio.
Allo stesso Yahweh, si farà dire:
Vi diedi una terra che voi non avevate lavorata, e abitate in città che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti che non avete piantati. (Gs 24,13).
I motivi di perplessità non sono circoscritti ai rapporti tra Israele e i popoli dei territori conquistati; anche negli ordinamenti interni o nelle preghiere troviamo norme che suscitano imbarazzo.
Volendo limitarci a uno fra i tanti esempi, potremmo chiederci cosa pensare di quello che leggiamo nel libro dell’Esodo:
Se uno bastona il suo schiavo o la sua schiava fino a farli morire sotto i colpi, il padrone deve essere punito; ma se sopravvivono un giorno o due, non sarà punito, perché sono denaro suo. (Es 21, 20-21)
Oppure nella conclusione del Salmo 137 (Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo …), omessa nei testi liturgici:
Figlia di Babilonia devastatrice,
beato chi ti renderà quanto ci hai fatto.
Beato chi afferrerà i tuoi piccoli
e li sbatterà contro la pietra.
La sensibilità di oggi trova stridente l’immagine di Dio che traspare dall’Antico Testamento; vale ben poco l'espediente proposto da vecchi teologi - figli di una cultura diversa dalla nostra - che, ancorandosi in un'anacronistica immagine antropomorfizzata di Dio, parlavano di un suo adattamento, a scopo pedagogico, alla mentalità del tempo, per preparare il suo popolo a una prospettiva di pace o il tentativo di aggirare l’ostacolo parlando di genere letterario.
Oggi il modo di pensare si avvia a un profondo cambiamento e urgono scelte di pensiero più coraggiose per dare un senso più autentico a quella che continuiamo ad accogliere come parola di Dio.
* * *
Gli anni passavano e furono gli ebrei, a loro volta, vittime di altri conquistatori.
Le invasioni assire dal 722 a. C. cominciarono ad alterare l’identità nazionale delle tribù stanziate nel Nord.
Poi fu la volta della Giudea, nel 597, con l’invasione dell’esercito babilonese di Nabucodonosor e le deportazioni di massa.
I primi giudei, rientrati in patria in seguito all’editto di Ciro del 538 a. C., pensarono alla ricostruzione del Tempio; poi altre ondate tornarono nella terra degli avi, con la guida di Esdra, tutore della fede dei padri.
I reduci, insieme ai fardelli con le loro suppellettili, portarono idee attinte dai popoli ospitanti.
La salda fede monoteista si andava gradualmente colorendo con entità prese in prestito dalle culture vicine; lo spazio tra l’uomo e Yahweh si cominciava a popolare con entità buone e malvagie, anche se a lui subordinate. Il male sulla terra non poteva essere voluto da Dio, sia pure per punirli per i loro peccati; forse aveva ragione Zarathustra con la sua concezione di uno spirito del male, in lotta con il bene.
Il re non era più quello del piccolo regno di Giuda, facilmente raggiungibile e visibile da ognuno di loro; i regnanti con i quali erano stati in contatto, erano capi di vastissimi imperi con enormi distanze, in pratica inaccessibili ai loro sudditi se non attraverso messaggeri che trasmettessero i loro ordini.
Anche Yahweh fu collocato lontano e il bisogno di contatto fu assolto da suoi messaggeri, gli angeli (¥ggeloi) che trasmettevano la sua volontà.
Le lotte tra le divinità dei loro dominatori, furono riformulate come lotte tra spiriti fedeli o ribelli a Yahweh, in modo da non intaccare la concezione monoteistica e la fedeltà al loro Dio. Il popolo e i singoli individui restavano spettatori impotenti, pur essendo sollecitati a schierarsi dalla parte degli spiriti buoni con i loro comportamenti irreprensibili, ossessivamente regolamentati per trovarsi sempre nel giusto.
Le pressioni esterne, tendenti a ibridare la loro fede, continuano anche dopo il ritorno in Palestina.
Pur formando una piccola isola in una vasta area di lingua e di cultura greca, conseguente alla conquista di Alessandro Magno, non si potevano mantenere del tutto estranei alla tendenza dominante.
Dopo l’immatura morte di Alessandro, i suoi successori (diadochi) si contesero il controllo della Palestina; a Tolomeo, che aveva accordato un'ampia autonomia religiosa, subentrarono i seleucidi che tentarono una sistematica ellenizzazione, fino a giungere alla profanazione del Tempio con sacrifici a Zeus sull’altare di Yahweh.
L’atto fu considerato un abominio, tanto che il popolo, guidato dai Maccabei, si ribellò agli invasori sacrileghi; si affermò la dinastia asmonea, poi miseramente travolta da altri dominatori di turno: i Romani con Pompeo Magno.
In questa situazione caotica, il bisogno di ritrovare una propria identità, portò alla ricerca di gruppi d’appartenenza, che interpretassero i loro ormai differenziati orientamenti.
Attorno al primo secolo si delineavano vari gruppi che incarnavano le diverse anime di Israele; i più noti erano costituiti dai sadducei, dai farisei, dagli zeloti e dagli esseni.
Le notizie sui sadducei sono poche e da fonti poco attendibili. Sembra vi facesse parte, prevalentemente, l’aristocrazia sacerdotale, che ruotava attorno al Tempio; per questo motivo con la sua distruzione si è persa ogni loro traccia.
Sul piano politico mostravano una certa tolleranza, forse per opportunismo, nei riguardi dei dominatori stranieri; sul piano dottrinale riducevano la vita umana alla presenza fisica sulla terra, negando ogni sopravvivenza oltre la morte e consideravano ispirati solo i libri della Legge. Rifiutavano, inoltre, la dottrina sugli angeli.
In netta opposizione vi erano i farisei, strettamente ancorati alle numerose norme trasmesse e accumulate nel corso dei secoli, in sovrapposizione e spesso a discapito della Legge originaria.
Coerentemente all’etimologia del loro nome (separati, segregati, divisi), volevano distinguersi dagli altri considerandosi e volendo apparire strettamente osservanti; ne seguivano atteggiamenti che oggi definiremmo di ostentazione e ipocrisia.
Una frangia estrema dei farisei era costituita dagli zeloti, un gruppo a sé stante che si batteva fino al fanatismo per la purezza della Legge. All’epoca del dominio romano, da movimento religioso si era trasformato in movimento politico di liberazione.
Gli esseni formavano un gruppo organizzato in comunità isolate di tipo monastico dedite al lavoro e alla preghiera, con comunione di beni e rigorose regole di vita. Conducevano vita d’assoluta povertà e obbedienza; il frutto del loro lavoro era gestito da amministratori, nel bene di tutti. Molti appartenevano, come nascita, alla classe sacerdotale, ma prendevano le distanze da tutto quello che ruotava attorno al Tempio.
Trasversalmente alle varie fazioni, vi era la classe degli scribi - coloro che sapevano scrivere - considerati gli intellettuali e gli interpreti dei libri sacri.
Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d. C. a opera dei Romani guidati da Tito e quarant’anni dopo con la feroce repressione della rivolta di Bar-Kochba, la nazione sarà cancellata e la dispersione degli ebrei, la diaspora, sarà definitiva.
La forte coesione religiosa, però, permetterà di conservare una loro identità, anche se perderanno la loro lingua; quella adottata sarà inizialmente la greca, al punto che i libri sacri saranno conosciuti dal popolo attraverso la traduzione in questa lingua (Traduzione dei LXX).
Le comunità resteranno, malgrado tutto, molto attive nell’opera di proselitismo e costituiranno da iniziale tramite nella diffusione del messaggio cristiano.
2. Il messaggio evangelico
Chi è rabbī Yešūāh di Nazaret?
Non è certo cosa agevole tratteggiare la personalità dell’uomo che ha cambiato il corso della storia.
Per la comprensione della sua figura è necessaria una riflessione sul contesto sociale in cui egli ha operato e il suo atteggiamento di fronte a esso.
Era un mondo tetro e pauroso, nel quale gli indifesi - ed era la stragrande maggioranza del popolo palestinese, le moltitudini di cui si parla nei Vangeli - vivevano nella povertà e si sentivano in balia dei detentori del potere che disponevano di loro come fossero cose; si credevano, inoltre, perseguitati da spiriti cattivi, causa di infermità e mali di ogni genere.
Nella società del tempo, contava solo il potere e la ricchezza. Le donne non erano prese in considerazione e non avevano alcun peso nell’organizzazione sociale; il loro ruolo era circoscritto alla maternità e al sesso; non potevano far parte di alcuna fazione e non potevano nemmeno essere discepole di scribi. Stessa sorte era riservata ai servi e ai non abbienti che, divenuti inabili al lavoro, se non potevano essere accuditi da familiari, erano costretti a mendicare, poiché non esisteva alcuna organizzazione assistenziale. I bambini erano ignorati, non avendo alcun riconoscimento ufficiale.
È proprio a quelli considerati perdenti che Gesù si rivolgeva principalmente, considerandoli con pari dignità degli appartenenti alla classe dominante; si immedesimava fino alla commozione nelle loro sofferenze e operava per il sollievo da esse.
Predicava e auspicava una società, nella quale non vi sarebbe stata alcuna discriminazione e ciascuno avrebbe avuto considerazione e rispetto, non per il rango, il patrimonio, il prestigio, la cultura o le virtù ma solo come essere umano.
Come è stato accolto dal potere del tempo?
Il teologo domenicano Albert Nolan osserva:
… dal punto di vista dell’ambiente che lo circondava, era un fallito. È stato arrestato, processato e giustiziato per tradimento. Ma ha rovesciato radicalmente il mondo del suo tempo trattando questo tipo di fallimento come un successo. È stata la sua volontà di fallire a rivoluzionare la spiritualità dell’epoca. La sua morte è stata il suo trionfo. (Albert Nolan, Cristiani si diventa)
E i suoi seguaci?
Sorge un’amara riflessione: fra quelli che si dichiareranno suoi fedeli, questo esempio e questo insegnamento saranno considerati sempre elementi prioritari o non piuttosto sarà lo zelo per esaltare la sua divinità e il suo culto (per accattivarsi benevolenza e protezione!) a prevalere sulla fedeltà all’insegnamento e al modello che ha lasciato?
Il cristianesimo ha codificato una sua immagine rileggendo gli avvenimenti e il suo messaggio alla luce della resurrezione; questo evento inatteso ha certamente inciso sulla composizione dei racconti evangelici, forse spingendo verso qualche forma di mitizzazione, allo scopo di tradurre con più efficacia l’insegnamento del Maestro. Le notizie giunte a noi sono le rielaborazioni fatte dalle prime comunità cristiane, raccolte e tramandate dagli evangelisti: è il Cristo della fede tradizionale.
Gli apostoli e i primi discepoli si limitavano ad ascoltare rabbī Yešūāh, a guardare e vivere insieme a lui le emozioni conseguenti a quanto accadeva. Dopo la resurrezione i loro occhi si aprirono in una comprensione globale dell’esperienza vissuta nel periodo della vicinanza con lui e proclamarono al mondo il messaggio che avevano interiorizzato in quegli anni.
In un ambiente in cui la nuova dottrina, sebbene agganciata a principi tradizionalmente condivisi, appariva dirompente, era forte il bisogno di segni, considerati come avallo dall’alto della bontà del messaggio.
Negli anni quaranta del novecento, il teologo protestante Rudolf Bultmann, convinto dell’impossibilità di una ricostruzione storica della figura di rabbī Yešūāh, diede l’avvio ad un nuovo corso, parlando di necessità di demitizzare i racconti evangelici.
In seguito, il suo allievo Ernst Käsemann, partendo da premesse differenti, innescò una controversia protratta per qualche decennio.
Gli studiosi attuali fanno tesoro di nuove scoperte e di nuovi metodi di indagine; prendendo le mosse dall’antropologia culturale, dalla sociologia e dalla psicologia, cercano di apportare una diversa luce sulle conoscenze storiche delle quali si dispone.
Elemento comune in queste prospettive è lo sforzo di comprendere il Gesù della storia e la formazione delle prime comunità cristiane, nell’ambiente di una piccola provincia romana di età imperiale, con la cultura, la religione, la psicologia sociale, la politica e l'economia di quel tempo; aprono, in tal modo, uno spiraglio per addentrarsi in aspetti della persona di Gesù di Nazareth fin ora scarsamente considerati.
L’uomo di oggi ha meno bisogno di mitizzazioni per accostarsi a una dottrina ritenuta valida e a un personaggio così misterioso e sublime da lasciare incantati.
A. L’insegnamento di Gesù
L’insegnamento di Gesù s'impone per la sua stessa forza e - se veramente capito - oggi non può essere messo in discussione da nessuno, poiché si allea con le esigenze più profonde dell’essere umano; non ha quindi bisogno di paladini che scendano in campo per difenderlo.
Significativo quanto osserva il citato teologo domenicano nell’introduzione a un suo libro:
… non si vuol evidentemente dire che ho scritto il libro con l’intento apologetico di salvare Gesù o la fede cristiana. Gesù non ha davvero bisogno che io, o chiunque altro, lo salvi. Ritengo che possa bastare a se stesso, perché la verità può bastare a se stessa. (Albert Nolan, Gesù prima del cristianesimo)
Il traguardo finale prospettato da Gesù, idealmente, è la realizzazione di una piena armonia con se stessi, con i propri simili, col creato e col Creatore.
Piaccia o no, a uno sguardo attento l’evoluzione sociale si muove, sia pure lentamente e in modo discontinuo, in questa direzione: la realizzazione del messaggio di Gesù, pur senza nominarlo. Anche se con etichette diverse, dalle convenzioni internazionali ai movimenti di solidarietà, al bisogno di spiritualità, la direzione è quella tracciata da Cristo, anche se spesso non patrocinata dal cristianesimo ufficiale.
Eppure, si parla con sempre più insistenza di abbandono della fede, fino a far diventare questa affermazione un luogo comune.
Ancora peggio, molti cristiani mostrano una certa remora a manifestare apertamente la loro fede, quasi fosse una debolezza di cui vergognarsi: si parla di rispetto umano o di deferenza al modo di pensare agnostico, giudicato di moda.
Dove sta l’incongruenza?
Non sarà perché continuiamo a presentare i valori autentici con un linguaggio obsoleto e non più comprensibile all’uomo di oggi? O forse perché si enfatizzano aspetti marginali o forse ancora perché, sotto l’etichetta di cristianesimo, sono stati inglobati molti altri contenuti che lasciano perplessi?
Se si deprecasse meno la mancanza di fede e si leggessero meglio i segni dei tempi, forse si sarebbe più propositivi e costruttivi.
Penso che un approccio a un problema così grande debba essere fatto abbandonando ogni preconcetto, di qualsiasi genere, con l’umiltà di chi non ha una soluzione predefinita, pronta da scodellare.
* * *
Soffermandoci a riflettere, possiamo leggere quanto proposto da Gesù in due diversi modi che fra loro, non solo non si escludono, ma che - per qualche aspetto - reciprocamente si completano; i due orientamenti comportano due modalità di approccio e due modi di formulare l’insegnamento divino:
o Ricorrendo al concetto tradizionale di soprannaturale che si sovrappone alla natura umana per modificarla ed elevarla.
o Come prospettiva di una piena realizzazione dell’essere umano, secondo il piano della Provvidenza.
Formulazione tradizionale
Nel passato la teologia ha sviluppato il primo aspetto, vedendo la rivelazione e la redenzione come interventi diretti di Dio per il bene dell’uomo; questi concetti - considerati indiscutibili - sono stati approfonditi ed elaborati nel corso dei secoli, fino a formare un gergo comprensibile solo a iniziati.
La lettura tradizionale, a parte la difficoltà di comprensione per chi non è ben integrato in questo modo di esprimersi, mancando di riscontri concreti, oggi rischia di apparire, a molti, nebulosa; inoltre, ai loro occhi, si ingloba in unico pacchetto il messaggio genuino di Cristo, la tradizione espressa coi linguaggi standardizzati nei periodi storici in cui si è strutturata, la burocratizzazione della religiosità secondo modelli sociali passati, la storia della Chiesa con tutte le sue vicissitudini temporali e le tante posizioni in campi che solo marginalmente toccano l’aspetto religioso.
Inoltre la Chiesa, identificata con la curia romana, da molti è vista come un’organizzazione anacronistica, una specie di corte con tradizioni di stampo medievale cristallizzate, che governa con un suo proprio codice di etichette e atmosfere all’insegna dell’immobilismo dogmatico, della censura moralistica, della protezione canonistica omniregolante, della filosofia scolastica omnisciente e dell’imposizione.
Appare frutto di una monopolizzazione clericale in cui la dottrina e i servizi sono accaparrati da una classe sacra, governata da un piccolo centro aristocratico, con i suoi dicasteri e al vertice un monarca assoluto; la comunità cristiana - il popolo di Dio - assume il ruolo di gregge passivo che deve essere governato da questi pastori solerti, pronti a intervenire con il vincastro in mano.
Tutto questo, ben confezionato in un contenitore ermetico, con sovrapposta l’etichetta di fede, è presentato come cristianesimo: prendere o lasciare.
I più, senza nemmeno darsi la pena di analizzarne il contenuto, rispondono con un più o meno garbato: No, grazie e girano le spalle.
Chi aderisce, spesso, alza steccati per non rischiare l’inquinamento del proprio modo di credere, deplora l’affievolimento della fede nel mondo e con sacro furore condanna chi avanza una qualche riserva.
Inoltre, fra i cosiddetti credenti, si potrebbe - a volte - correre il rischio di uno slittamento verso forme più o meno larvate di devozionismo: volersi ingraziare la divinità al fine di acquisire meriti e di avere vantaggi nel presente e nella vita futura.
Sorge il dubbio che in questo modo, oltre a ghettizzare il cristianesimo, si eluda il messaggio forte di Gesù aggirando l’ostacolo: si sorvola sul contenuto più profondo, coinvolgente e credibile, la legge dell’amore, per prendere la scorciatoia di un’adesione formale e servile; si spera di salvarsi sforzandosi di essere ligi all’autorità ecclesiastica e alle regole, più o meno contingenti, che rappresentano solo un contorno, senza mettere in discussione il proprio orientamento di vita.
Voleva questo Gesù?
Per certi versi, come è umano che avvenga, si ricalca il comportamento egoistico e formale che Gesù stesso condannava nei farisei e che è ben lontano dal messaggio portato avanti da lui.
Di là delle implicazioni di ordine pratico, questo parametro interpretativo, che ci ha accompagnato per due millenni, potrebbe far sorgere qualche perplessità; alla luce delle incalzanti conquiste culturali, rischia di diventare stretto e forse si impone una profonda riflessione, se non si vuole restare al margine dell’evoluzione del pensiero.
Cosa intendeva dire Gesù ai discepoli che riferivano di avere impedito, a coloro che non erano dichiaratamente suoi seguaci, di cacciare demoni nel suo nome?
Non si potrebbe pensare che il cristianesimo si trascini una specie di peccato originale, affondando le radici nella tradizione ebraica?
Yahweh era un Dio nazionale; il Dio cristiano è Dio di tutti, ma la rivelazione l’ha riservata solo a noi …
Chiunque non è ligio all’autorità religiosa, anche se dice cose sacrosante, è guardato con sospetto, perché … non è dei nostri!
È un pensiero troppo azzardato?
Non potrebbe essere opportuno ricordare come, otto secoli fa, Tommaso d’Aquino, nel dialogo con la cultura del suo tempo, faceva proprio un concetto da lui attribuito ad Ambrogio:
Omne verum, a quocumque dicatur a Spiritu sancto est (Al principio di ogni verità, chiunque sia colui che la professi, vi è lo Spirito Santo)? (Super evangelium Joannis, cap. 1, lectio 3)
Formulazione alternativa
Seguendo l’altra chiave di lettura, come vedremo più approfonditamente in seguito, si potrebbe tradurre lo stesso messaggio con una formulazione diversa, più comprensibile e convincente per il mondo contemporaneo.
Non si tratta di alterare la sostanza, ma di attualizzarla alla luce del modo di pensare di oggi e delle acquisizioni che incalzano, specie in campo psicologico e sociale.
Perché non tenere nella giusta considerazione e approfondire il concetto di cause seconde?
Nessuno oggi vede nei fenomeni atmosferici un intervento diretto di Dio che, di volta in volta a sua discrezione, apre o chiude le diverse cataratte del cielo, mosso dalle nostre preghiere; si è piuttosto orientati a pensare che il Creatore, chiamando l’universo all’esistenza, gli dia la potenzialità di evolversi, secondo le leggi da lui stesso tracciate. Il progresso della scienza ha gradualmente messo in luce queste leggi e ha permesso spiegazioni senza invocare, nei singoli casi, interventi diretti di Dio.
Prendendo in considerazione, a tutti i livelli, le cause seconde nell’evoluzione del creato, perché continuare a vedere un Dio antropomorfizzato e non piuttosto un piano della Provvidenza, nel quale tutto rientra?
Rispetto alle scienze fisiche e biologiche, la psicologia e la sociologia sono ancora abbastanza giovani e si stenta ad attribuire loro il rango di vere scienze, eppure il concilio Vaticano II ha invitato a prenderle nella dovuta considerazione.
Perché non estendere a esse lo stesso criterio, già assodato negli altri settori scientifici?
Come in seguito vedremo, una conoscenza più approfondita delle leggi che regolano la psiche umana ci permette, a esempio, di inquadrare come patologie o forme di immaturità tanti comportamenti che prima erano semplicemente etichettati come male o cattiveria, da superare in nome di una legge divina; oggi si pensa di curare, con gli strumenti che la scienza ci offre, quello che sta all'origine di esse: curare la malattia, anziché limitarsi a neutralizzare i sintomi ricorrendo a terribili minacce.
Dobbiamo vedere in questo una laicizzazione e un allontanamento dalla fede o un’azione sinergica col messaggio di Cristo, oltre che una convalida del messaggio stesso?
L’insegnamento di Gesù acquisterebbe, in tal modo, un significato più comprensibile sul piano umano: un invito a seguire, nel giusto modo, il processo evolutivo che porta alla realizzazione di sé come persone normali; se la scienza ci fornisce strumenti per agevolare questo traguardo, non possiamo che prenderne atto con piacere.
Questo diverso modo di vedere potrebbe destare perplessità in chi è abituato al linguaggio tradizionale.
A una lettura superficiale, si potrebbe anche pensare a un tentativo di ridurre il messaggio di Gesù al livello di teoria etica, sulla scia dei grandi filosofi.
In realtà, il messaggio di Gesù, profondamente e autenticamente interiorizzato, porterebbe idealmente a raggiungere uno stato in cui si tende spontaneamente al bene, senza che ci si debbano imporre comportamenti discordanti dal proprio modo di sentire; in altri termini, superando i conflitti interiori.
Questo concetto è in perfetta sintonia con quanto Paolo di Tarso precisa affermando … che la Legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui… (1 Tm 1,9).
Lo sforzo da compiere sarebbe circoscritto a colmare il divario tra il livello di fatto raggiunto e il traguardo proposto, pur non perdendo di vista che si tratta di un ideale.
In questa prospettiva, uno sforzo del genere non causa conflittualità, ma costituisce un potenziamento della normale tensione verso il bene; tensione che spinge a progredire, sia a livello individuale, sia come società.
Parliamo di normale tensione verso il bene, ma si tratta di un concetto tutto da chiarire.
Riprenderemo questi concetti in seguito.
Per il momento, con questa chiave di lettura, possiamo accostarci ai grandi temi dell’insegnamento di Gesù, l’amore nei suoi due aspetti:
o L’amore verso il prossimo, che deve animare i rapporti con gli altri.
o L’amore verso Dio, che trova il suo punto di forza nella preghiera.
Nello stesso tempo, possiamo spingere la riflessione verso altri orizzonti, quali il senso della vita e il destino dell’uomo.
B. “Amatevi come io ho amato voi”
Gesù nel suo insegnamento pone l’amore come elemento centrale nella via verso la salvezza.
Precisa il modo con cui realizzarlo, vi insiste nell’arco della sua predicazione e lo ripropone nel discorso dell’ultima cena come testamento.
Il concetto, non nuovo in assoluto, è presentato da Gesù in una forma nuova e più ampia ed è indicato come segno di riconoscimento dei suoi seguaci:
Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri. (Gv 13, 34-35)
Gesù non dice: Vi riconosceranno come miei discepoli dalle pratiche di culto, dalla deferenza verso l’autorità religiosa, dalla scrupolosa osservanza della legge, dal controllo della sessualità, …
Pone proprio l’amore come caratteristica distintiva dei suoi seguaci.
Un approccio più ravvicinato ci consente di meditare il suo comandamento nelle varie sfaccettature:
o Inserendosi nella tradizione ebraica, amplia il concetto di prossimo.
o Estende l’amore ai nemici.
Amplia il concetto di prossimo
La tradizione ebraica era concorde nell’affermare la priorità dell’amore e ogni buon giudeo lo sapeva bene, ma l’atteggiamento allora comune era la solidarietà nell’ambito del proprio gruppo d’appartenenza; nei confronti degli altri era legittima una certa indifferenza, se non proprio una qualche forma d’ostilità.
Gesù invita a superare le barriere di gruppo o nazione di appartenenza e lo illustra con la parabola del buon samaritano.
I giudei avevano sempre nutrito disprezzo e un’avversione viscerale crescente verso i samaritani, considerati come eretici e bastardi; questo rapporto di ostilità rende particolarmente incisivo il significato della parabola.
Per un giudeo, l’ultimo a essere considerato prossimo era un samaritano, eppure nella parabola è proprio un samaritano che si dimostra prossimo e soccorre il giudeo in difficoltà.
Estende l’amore ai nemici
Gesù va oltre il modo di pensare corrente e propone, a varie riprese, l’amore anche per i nemici.
Storicamente, è la prima volta in assoluto che venga proposto un insegnamento del genere.
Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?
E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?
Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
(Mt 5, 43-48)
Nel passato stupiva l’affermazione iniziale di questo brano, poiché nei libri sacri e nel resto della letteratura ebraica non esistono espressioni del genere, pur abbondando le invocazioni a Dio perché intervenga contro i nemici.
Le troviamo invece nei manoscritti rinvenuti a Qumrân, dove lo spirito settario incita con insistenza i membri del gruppo a odiare e maledire i nemici.
Nel Manuale di disciplina, ad esempio, leggiamo:
… per amare tutti i figli della luce, ciascuno secondo la sorte riservatagli dal pensiero di Dio, e odiare tutti i figli delle tenebre, ciascuno secondo la sua consapevolezza nel giudizio di vendetta di Dio.
(IQS I,9-10).
Ciò denota che ai tempi di Gesù si solevano ripetere affermazioni del genere.
Il brano citato del vangelo di Matteo trova riscontro negli altri evangelisti, concordi nel riproporre questo insegnamento.
Superando la tradizione di allora, basata sulla legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente), Gesù invita a non innescare e non alimentare la spirale dell’odio; la malevolenza non alimentata non rimbalza e tende a estinguersi.
C. preghiera e culto nell’insegnamento di Gesù
L’esortazione alla preghiera è una costante nella predicazione di Gesù; analizzando e comparando i vari contesti nei quali egli la rivolge, potremmo avere un’idea meno inesatta su quello che intendesse attraverso quest’invito.
Gli evangelisti usano spesso il termine proseuc» (proseuché); questo termine indica una varietà di modi di pregare, rispondenti alle diverse concezioni che si hanno del rapporto con la divinità. Si va dalla preghiera pubblica o privata per ingraziarsi Dio, nella speranza che si mostri benevolo, alle richieste di favori specifici, nel proprio interesse - anche se spesso in conflitto con quello degli altri - alla prospettiva di poter migliorare il proprio comportamento, chiedendo aiuto alla divinità, fino a giungere alla meditazione che, a vari livelli, mette in contatto con la divinità stessa.
Ciascuno ha un proprio modo di concepire la preghiera ed è portato a riscontrarlo nelle parole di Gesù.
In realtà, egli parlava alle persone del suo tempo, doveva, quindi, adeguarsi alle loro esigenze e al loro modo di pensare.
Da notare anche un altro elemento: le sue parole sono giunte a noi filtrate dagli evangelisti, che dovevano adattarle alle esigenze e al modo di pensare delle rispettive comunità. Per capire meglio l’invito di Gesù potrebbe essere utile una riflessione sulle varie sfaccettature, partendo dal suo atteggiamento di fronte al culto ufficiale fino a giungere al modello di preghiera che ci ha lasciato.
Gesù non enfatizza il culto
Uno sguardo d’insieme sul culto ufficiale, presso il popolo ebraico, ci può far comprendere i motivi dell’atteggiamento assunto da Gesù nei riguardi di esso.
La religiosità ebraica, a partire dal periodo dei patriarchi, era incentrata nel rapporto di alleanza tra Dio e il suo popolo: in cambio della fedeltà a lui e dell’ubbidienza alle sue leggi, Dio prometteva protezione, benessere e una numerosa discendenza.
Non vi erano luoghi stabili di culto, anche perché la vita seminomade non lo permetteva; il solo punto di riferimento era l’arca che custodiva le tavole della Legge, alloggiata in una tenda.
Con l’unificazione delle tribù e il consolidamento della nazione attuato da Davide, per emulazione con i popoli vicini, ne sorse l’esigenza. Il profeta Natan intervenne manifestando, a nome di Dio, il suo dissenso.
L’idea di un luogo di culto stabile fu ripresa da Salomone (1011-931 a.C.); si giunse così alla costruzione del Tempio e alla strutturazione di un rituale, minuziosamente articolato, perché nulla fosse lasciato all’improvvisazione.
Il popolo ebraico si era lasciato influenzare dalla popolazione cananea e aveva lentamente accettato che concezioni pagane entrassero a far parte della sua fede; a esempio, la convinzione che l'abbondanza dei sacrifici o la solennità del culto fossero mezzi per placare o propiziare Dio.
Con la costruzione del Tempio a Gerusalemme, molte pratiche si consolidarono definitivamente e furono codificate nei libri sacri.
Tuttavia i profeti, cominciando da Isaia, continueranno a prendere le distanze.
L’organizzazione del culto era affidata alla tribù di Levi e nel suo interno i discendenti di Aronne per le funzioni sacerdotali.
Essendo la vita civile legata intimamente al culto religioso, l’importanza del sacerdozio, come classe sacra a carattere ereditario, si accresceva sempre più.
Anche il numero dei sacerdoti aumentava, tanto che al tempo di Gesù si calcolava attorno ai diciottomila; per le celebrazioni liturgiche al Tempio vi era un sistema di rotazione.
In origine rientrava nei compiti dei sacerdoti dare oracoli; con la ricostruzione del Tempio, al rientro dall’esilio, tale incombenza scompare; anche l’insegnamento della legge, che rientrava nelle loro funzioni, dopo l’esilio passerà agli scribi.
I sacerdoti divennero solo funzionari del sacro, con ruolo limitato all’esecuzione dei riti liturgico-sacrificali.
Col trascorrere del tempo e col raggiungimento di una certa prosperità, il concetto fondamentale di popolo di Dio perdeva vigore. Il ripiego nella sontuosità del culto, come mezzo per ingraziarsi la divinità, deviava l’attenzione; agevolava un completo rilassamento etico e il dilagare dell'immoralità e dell'ingiustizia. Per avere Dio dalla propria parte, non era necessario adeguare il proprio comportamento alle sue leggi; bastava ingraziarselo con sacrifici e riti solenni.
Il culto negli interventi dei profeti
I profeti insorgono contro queste aberrazioni e tentano di difendere l’immagine di Dio, oltraggiata dal comportamento della nazione infedele, minacciando severe punizioni.
Nelle loro ferme ammonizioni, si scagliano contro il culto inteso come sostitutivo del retto modo di vivere.
Per i profeti, la frequentazione del Tempio, i riti e i sacrifici non sono atti magici che realizzano automaticamente l'effetto sperato; sono un'occasione per la ricerca di rapporto con Dio.
Le loro denunce non sono semplicemente contro un culto esteriore; la loro critica è contro una religiosità che, anche se intensamente vissuta, si dissocia dal vivere quotidiano, ponendo Dio a livello delle divinità pagane che si lasciano piegare con sacrifici e offerte. L’accusa è rivolta anche ai sacerdoti che sostituiscono la giustizia con il culto, travisando la fede d’Israele. Per i profeti, non si può fare esperienza del divino senza cercare il bene dell’altro; il culto è l’espressione di ciò che si vive nei rapporti umani e solo una vita aperta ai propri simili può dare a esso un significato.
Il culto ai tempi di Gesù
Ai tempi di Gesù il modo di concepire il culto non si discostava di molto da quello descritto e criticato dai profeti.
Non mancava in quel periodo il dissenso; oltre ai samaritani che avevano il loro luogo di culto sul monte Garizìm, altri gruppi, come gli esseni, contestavano il Tempio di Gerusalemme che loro giudicavano contaminato.
Già dalla costruzione del nuovo Tempio, al rientro dall’esilio in Babilonia, la casta sacerdotale aveva acquistato la propria autonomia e una maggiore autorità sul popolo; anche la scomparsa della profezia contribuiva ad accrescere la loro autorità.
I sacerdoti, però, apparivano più come macellai di professione che come uomini di preghiera. Un insigne storico ebreo così descrive i sacrifici di quel tempo:
Quello che può essere sorprendente per il lettore moderno è l’assenza di preghiera in ogni parte della funzione. I sacerdoti all’altare non pregavano… L’offerta del sacrificio era un’azione sacrale e, come ogni azione di questo genere, era autosufficiente.
(E. Bickerman, Gli Ebrei in età greca, p. 189).
Anche scritti dell’epoca, come quelli dello storico Giuseppe Flavio, tramandano una visione poco entusiasmante del sacerdozio giudaico. Questa situazione fa capire la presa di distanze da parte di Gesù e il motivo per il quale, nonostante la loro importanza, i sacerdoti e il culto sono appena ricordati nei vangeli; si parla maggiormente dei sommi sacerdoti, per le implicazioni col processo a Gesù.
Nel corso del suo insegnamento, Gesù si connette con le posizioni dei profeti.
Gli evangelisti non parlano di partecipazione di Gesù al culto ufficiale, né d’offerte di sacrifici, com’era usuale in quel tempo.
Preghiera come contatto con l’infinito
Gesù non considera la frequentazione del Tempio e i riti atti magici che realizzano automaticamente l'effetto per cui sono stati istituiti, ma un'occasione per la ricerca del contatto con Dio.
Per cercare questo contatto si apparta in luoghi deserti.
Da quello che tramandano gli evangelisti, non possiamo sapere quale fosse il modo di pregare di Gesù. Sappiamo solo che Gesù pregava, invitava con insistenza a farlo, ma nello stesso tempo invitava alla sobrietà e a non moltiplicare le parole, come i pagani: Dio sa quello di cui si ha bisogno; nello stesso tempo ci offre un modello di preghiera.
La preghiera insegnata da Gesù: il Padre nostro
Il modello insegnato da Gesù è il Padre nostro, in cui, sotto forma di richiesta a Dio, sono suggerite riflessioni sul come orientare il proprio comportamento per collaborare col piano della Provvidenza nella realizzazione del regno dei cieli.
… uno dei discepoli gli disse: Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli.
Ed egli disse loro: Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione. (Lc 11,1-4)
Cediamo ad Agostino d’Ippona il commento sul significato di questa preghiera:
A noi sono necessarie le parole per richiamarci alla mente e considerare quello che chiediamo, ma non crediamo di dovere informare con esse il Signore, o piegarlo ai nostri voleri.
Quando dunque diciamo: «Sia santificato il tuo nome», stimoliamo noi stessi a desiderare che il suo nome, che è sempre santo, sia ritenuto santo anche presso gli uomini, cioè non sia disprezzato. Cosa questa che giova non a Dio, ma agli uomini.
Quando poi diciamo: «Venga il tuo regno» che, volere o no, certamente verrà, eccitiamo la nostra aspirazione verso quel regno, perché venga per noi e meritiamo di regnare in esso.
Quando diciamo: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra», gli domandiamo la grazia dell'obbedienza, perché la sua volontà sia adempiuta da noi, come in cielo viene eseguita dagli angeli.
Dicendo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», con la parola «oggi» intendiamo nel tempo presente. Con il termine «pane» chiediamo tutto quello che ci è necessario, indicandolo con quanto ci occorre maggiormente per il sostentamento quotidiano. Domandiamo anche il sacramento dei fedeli, necessario nella vita presente per conseguire la felicità, non quella temporale, ma l'eterna.
Quando diciamo: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», richiamiamo alla memoria sia quello che dobbiamo domandare, sia quello che dobbiamo fare per meritare di ricevere il perdono. Quando diciamo: «E non ci indurre in tentazione», siamo esortati a chiedere l'aiuto indispensabile per non cedere alle tentazioni e per non rimanere vinti dall'inganno o dal dolore.
Quando diciamo: «Liberaci dal male», ricordiamo a noi stessi che non siamo ancora in possesso di quel bene nel quale non soffriremo più alcun male. Questa domanda è l'ultima dell'orazione domenicale. Essa ha un significato larghissimo. Perciò, in qualunque tribolazione si trovi il cristiano, con essa esprima i suoi gemiti, con essa accompagni le sue lacrime, da essa inizi la sua preghiera, in essa la prolunghi e con essa la termini. (Lettera a Proba)
Il concetto sottostante all’insegnamento di Gesù è che la preghiera va messa al nostro servizio, a condizione che non costituisca una formula da ripetere meccanicamente, ma che sia un momento di riflessione.
* * *
A conclusione di questo capitolo, interrogativi sorgono spontanei: il messaggio di Gesù di Nazareth non potrebbe essere meglio compreso ampliando l'orizzonte e inserendolo nel movimento più vasto in cui affonda le radici e nei bisogni più profondi che affiorano dall’intimo dell’uomo?
Riprendiamo alcuni di questi aspetti iniziando con l’evidenziare come il messaggio di Gesù di Nazareth trovi una perfetta sintonia con le esigenze profonde che affiorano in ogni essere umano.
3. L’individuo e l’ideale di maturità
Se ben inteso e sfrondato da tante sovrastrutture, accumulate nei secoli passati, il messaggio evangelico non solo compendia le conquiste e le aspirazioni affiorate nell'umanità nel corso dei millenni, ma risponde anche ai bisogni più intimi della natura umana; dà corpo alle tendenze che orientano l’evoluzione dell’individuo verso la piena realizzazione di sé attraverso il superamento dell’egocentrismo infantile.
La legge suprema dell’amore è una sintesi di questo traguardo.
Sostanzialmente è un invito a realizzarsi come persone pienamente mature, capaci di amare in modo completo e autentico.
Una trattazione esauriente esula dagli obiettivi di questo lavoro; ci limiteremo a un accenno sulle principali conclusioni che oggi la scienza psicologica ci offre.
Idealmente l'individuo, nel corso della sua evoluzione, tende a superare l'egocentrismo iniziale per aprirsi al rapporto con la realtà esterna, anche se la piena attuazione costituisce solo un traguardo auspicato.
Volendo semplificare al massimo, col rischio di apparire riduttivi, possiamo leggere in chiave relazionale le tre fasi dell'evoluzione infantile di cui parla Freud (orale, anale, fallica); potremmo scorgere in esse tre modi di rapportarsi col mondo esterno:
· Alla nascita il bambino è solo in grado di percepire se stesso e si appaga nel ricevere quanto gli necessita per soddisfare i suoi bisogni, come in una continuazione della vita fetale. Si parla di egocentrismo primario o integrale.
· Dopo qualche tempo (verso il secondo anno di vita), gradualmente sviluppa una qualche capacità di procurarsi ciò di cui necessita, usando cose e persone per raggiungere lo scopo immediato. Possiamo scorgere la tendenza alla strumentalizzazione rivolta alle persone e alle cose.
· Andando ancora oltre, inizia lo sviluppo della capacità di interagire in un rapporto più stabile con le persone per lui significative; nello stesso tempo cerca di affermare la propria individualità e il proprio ruolo, anche in competizione con gli altri.
Procedendo ancora, superato il periodo complesso della fanciullezza e dell’adolescenza, si avvia alla maturità, caratterizzata dalla capacità di conciliare serenamente il proprio bene col bene comune.
Sulla stessa linea si pone il citato studioso moderno che tanto peso ha avuto nel pensiero attuale: Sigmund Freud, un ebreo ateo.
Nelle sue opere, in particolare in Psicopatologia della vita quotidiana, pubblicato nel 1901, aveva evidenziato come in ogni persona vi siano tracce di comportamenti patologici.
Verso la fine della sua vita, in una intervista gli fu chiesto quale fosse la persona veramente normale; rispose con una semplice espressione: l’uomo normale è quello capace di amare e lavorare (liben un arbeiten). Non sappiamo il senso esatto che volesse dare a questi termini; in ogni caso, amare è la capacità si uscire da se stessi per aprirsi agli altri, lavorare è mettere a disposizione degli altre le proprie capacità e competenze.
Non sempre, però, l’individuo, pur giungendo all'età adulta, si avvicina in modo adeguato a questo traguardo; spesso resta ancorato a comportamenti che risentono delle caratteristiche delle fasi infantili. Vive in costante apprensione e considera la realtà esterna come una minaccia che lo porta a prendere le distanze da essa; nell’incapacità di considerarsi un membro della grande famiglia umana, ripiega su se stesso in atteggiamento di difesa e di chiusura egocentrica.
In passato si parlava di vizi, devianze, cattive abitudini o, più in generale, tendenze al male, insite nella natura umana e da correggere con lo sforzo.
Fra i credenti, si faceva appello al peccato originale per giustificare questa realtà. Se volessimo prenderlo in considerazione questo riferimento, come già notato, dovremmo vedervi una trasmissione di modelli inadeguati.
A un attento esame, possiamo riscontrare in questi comportamenti forme d'immaturità; residui, cioè, di comportamenti rapportabili a quelli osservati, in embrione, nelle tre fasi infantili descritte.
Schematizzeremo artificiosamente l'argomento isolando i vari aspetti; nella vita corrente, s'incontrano forme miste, nelle quali uno dei tipi descritti ha una certa prevalenza.
Inoltre, il grado di cultura, il tipo di educazione, la formazione morale e religiosa e vari altri elementi influiscono notevolmente sulla modulazione dell'agire concreto.
Si possono incontrare anche mimetizzazioni e - in qualche caso - tratti che, pur essendo per loro natura espressione d'immaturità, possono assumere caratteristiche socialmente utili. Nel gergo psicologico, si parla - in questi casi - di sublimazione di tratti che sarebbero potuti sfociare in forme indesiderabili.
Accenniamo, nelle grandi linee, alle tre aree di riferimento riguardanti i comportamenti immaturi nella persona adulta.
a) Arresto all’atteggiamento egocentrico
La persona che si ferma o regredisce alla fase egocentrica è alla costante ricerca di piacere e di soddisfazione, ignorando l’esistenza e i diritti degli altri.
Il comportamento, sia pure con modalità diverse, è imperniato sul bisogno insaziabile di ricevere e sugli stati emotivi conseguenti alla soddisfazione del bisogno stesso o alla sua frustrazione.
L'esigenza di ricevere può riferirsi a oggetti diversi:
· cibo, da qui la facile indulgenza alla gola;
· conoscenze, con conseguente esagerata curiosità, avidità di guardare, di leggere, …
· affettuosità, come ricerca di cure, di calore, di protezione;
· lodi, come bisogno di stima, di ammirazione, …
· onori, come ambizione e particolare sensibilità a titoli, onorificenze, promozioni, …
Il comportamento che ne segue è caratterizzato da impulsività, irrequietezza, volubilità, fretta e da frequenti disturbi del tono dell’umore: ottimismo con eccessiva fiducia in sé o pessimismo con l’atteggiamento querulo di chi pretende, con richieste insistenti, un'ipotetica riparazione per qualcosa di cui sarebbe stato originariamente defraudato.
Spesso nutre una preoccupazione eccessiva per la propria salute e ne fa un’arma per indurre gli altri a prendersene cura.
Altre volte si trascura, come in un’implicita richiesta che siano gli altri a occuparsi di lui.
Altre volte, ancora, si manifesta incapace di chiedere e - ossessionato dall'idea di pesare sugli altri - si chiude in un ostinato silenzio.
Anche se più raramente, s'incontrano casi di persone egocentriche eccessivamente premurose nei riguardi degli altri. Non si tratta, però, di un autentico interesse: gli altri sono solo una proiezione di sé e il prodigarsi in cure eccessive, non sempre a loro gradite, tradisce il bisogno di riceverne.
b) Arresto all’atteggiamento di strumentalizzazione
La persona ancorata alla seconda fase di sviluppo tende alla possessività e a considerare gli altri come oggetti o strumenti da usare per il raggiungimento dei propri interessi.
I tratti di carattere che ricorrono con una certa frequenza ruotano attorno al bisogno di controllo su tutto, considerando ogni persona o cosa come mezzo o strumento per raggiungere i suoi scopi:
· ordine e pulizia eccessivi, tendenza a sistematizzare, con lo scopo di tenere tutto sotto controllo, andando oltre a ciò che è realmente utile;
· parsimonia, che può giungere fino all’avarizia, come bisogno di possedere;
· possessività, anche sul piano affettivo, con facili atteggiamenti di gelosia;
· ostinazione, fino a toccare la caparbietà, come resistenza a cedere.
Le persone sono prese in considerazione nella misura in cui possono essere utili e messe da parte non appena lo scopo è raggiunto o se ne costata la non utilità.
c) Arresto all’atteggiamento competitivo
Un arresto alla terza fase causa la costante preoccupazione di affermare la propria supremazia attraverso la competitività, il tentativo di umiliare gli altri, l’invidia.
I tratti caratteriali solitamente presenti ruotano attorno a questa tendenza:
· presunzione, come sopravvalutazione di sé;
· arroganza, come ostentazione di energia e di dominio;
· aggressività, come difesa contro presunti attacchi alla propria persona.
Non è difficile leggerli come reazioni all’insicurezza nei rapporti con gli altri, visti costantemente come rivali.
La piena maturità è l’ideale cui tende l’individuo che ha superato felicemente gli stadi precedenti.
Parliamo d'ideale perché nessuno può dire di aver raggiunto questo stadio in modo completo.
L’individuo pienamente maturo - e quindi pienamente normale in tutti gli aspetti - è un ideale a cui si tende; esiste sempre un modo più completo di realizzarlo.
Carattere fondamentale della maturità è un'integrazione armoniosa:
- di tutte le tendenze nell’ambito della personalità;
- della propria individualità nella grande famiglia umana;
- della propria esistenza in una prospettiva di ordine supremo.
Pur non perdendo di vista orizzonti più vasti, la persona matura tende a unirsi stabilmente e integralmente a un altro essere che entra a far parte della propria esistenza come elemento indispensabile e insostituibile, verso cui convergono tutte le tendenze: sessuali, affettive, spirituali.
Nei casi ordinari l’oggetto privilegiato è una persona di sesso differente; la piena realizzazione dell’amore cristallizza in nuove vite - continuazioni della propria esistenza - alle quali fiduciosamente affida i valori e gli ideali raggiunti.
La coppia ben affiatata si apre al mondo esterno per integrarsi in una realtà più vasta e trasmettere il modello realizzato.
In situazioni particolari, si va oltre quest’oggetto immediato per aprirsi a un interesse profondo che investe l'intera persona, come una missione o un ideale di bene.
Il bisogno di trascendenza di sé, che porta a perpetuarsi nelle generazioni future, spinge l’uomo maturo a sentirsi vicino a tutti gli esseri umani, di tutti i tempi.
Di là della propria esistenza individuale, egli percepisce una realtà più vasta nella quale s'immerge per trovare la propria ragione d’esistere.
Di fronte a una tale visione, la morte non è più la fine di tutto. Il proprio ciclo vitale è un momento dell’ordine supremo in cui continuerà la propria esistenza.
La maturità coincide con la piena capacità di amare.
Perché vi sia vero amore è necessario che l’oggetto e il modo di stabilire il rapporto con esso rispondano ai criteri dell'autenticità. Non è amore:
- il tendere a un oggetto come proiezione dell’immagine di sé (identificazione narcisistica);
- costituire come oggetto ciò che per natura sua può essere un mezzo soltanto, a esempio il sesso, la macchina, i beni di consumo, la carriera … (alienazione);
- ricercare un oggetto per un suo particolare aspetto: la bella ragazza, l’uomo prestigioso, … (interesse feticistico).
L’uomo nasce staccandosi da un altro essere in cui era originariamente immerso; raggiunge la sua completezza nella simbiosi con una realtà esterna alla quale si unisce per realizzare un nuovo modo di esistere.
Quello descritto è il traguardo al quale tende il singolo individuo che collabora al pieno sviluppo delle proprie potenzialità e nello stesso tempo ciò verso cui tende la vera evoluzione sociale.
Il percorso che avvicina a questo traguardo si presenta irto di ostacoli che investono tutti i settori della vita umana.
Fra i tanti, a solo titolo d’esempio, prendiamo in considerazione due aspetti che illustrano bene i concetti: il rapporto della persona matura con la legge e il suo modo di porsi di fronte alla sofferenza; vedremo, in seguito, come gli stessi aspetti siano considerati nell'insegnamento di Gesù.
A. La persona matura e la legge
Prendendo le mosse dalle attuali conoscenze in campo psicologico e sociale, possiamo analizzare i diversi modi di concepire la legge.
Anche se la vastità del problema può far apparire riduttiva questa esposizione, ne possiamo sintetizzare alcuni concetti.
La legge, vista:
o nelle motivazioni che possono esservi alla base,
o nell’immaginario comune,
o in un mondo che cambia.
La legge, le motivazioni e gli orientamenti di vita
Il concetto di legge, in particolare di legge morale, impone oggi un’attenta riflessione, alla luce dell’evoluzione del pensiero nel corso della storia.
Per una corretta comprensione del problema, sono preliminarmente opportune alcune chiarificazioni sul concetto di motivazione che sta alla base dei comportamenti umani.
Circoscrivendo l’argomento a quanto ci interessa, possiamo considerare due ordini di motivazioni, centrate rispettivamente sull’esterno o su bisogni interiori.
Motivazioni centrate sull’esterno
Le motivazioni centrate sull’esterno sono costituite, in prevalenza, da incentivi e da deterrenti.
Si tratta di motivi non sempre efficaci; gli incentivi solitamente costituiscono forme di motivazioni labili, mentre i deterrenti determinano facilmente situazioni conflittuali.
La legge, come più in generale la trasmissione delle norme, fin ora ha fatto appello prevalentemente a questo tipo di motivazioni.
Come conseguenza, la trasmissione delle norme suole essere molto rigida in ambienti nei quali sussistono gravi problemi di sopravvivenza. Con il miglioramento delle condizioni di vita perde la sua incisività e il carattere vincolante.
In campo religioso, nella tradizione che abbiamo alle spalle, la trasmissione delle norme morali era motivata principalmente dal dovere di ubbidienza alla volontà di Dio, suffragato da incentivi e deterrenti, quali premi o castighi eterni e quanto vi ruota attorno.
Si tratta di motivazioni centrate sull’esterno ed è ovvio che, col progredire del benessere, perdano la loro forza e siano messe in discussione.
Anche nella storia di Israele, i periodi di benessere furono accompagnati dal lassismo nei costumi, come denunciato dai profeti.
Motivazioni centrate su bisogni interiori
Le motivazioni centrate su bisogni interni sono connesse col patrimonio genetico e presentano un carattere di maggiore stabilità ed efficacia, sebbene richiedano molta oculatezza nel modo di gestirle.
Il patrimonio genetico ci trasmette istinti profondi rudimentali, molto vicini a quelli dei nostri antenati agli albori della comparsa dell’uomo.
Principalmente riguardano:
- la sopravvivenza individuale,
- la conservazione della specie,
- l’interscambio con l’ambiente.
Sono le caratteristiche basilari della vita, presenti, oltre che in tutto il mondo animale, anche nel mondo vegetale; le piante hanno ugualmente la potenzialità di sopravvivere nell’ambito del proprio ciclo biologico, entrano in rapporto con altri organismi per riprodursi (impollinazione), operano scambi di sostanze prese dall’ambiente esterno per nutrirsi.
Queste spinte primordiali (vis a tergo, forza che spinge) nell’uomo civilizzato si evolvono in motivazioni (oggetto che attrae), articolate in forme specificamente umane:
- l'istinto di sopravvivenza non è più ristretto al livello biologico; si traduce nell’esigenza di esistere come persona, sviluppando un’immagine di sé che porti alla formazione di un valido ideale dell’io;
- il bene della specie non è più limitato alla procreazione; si orienta alla ricerca del bene comune e alla socializzazione, con la prospettiva di un modo corretto di stabilire relazioni con i propri simili;
- lo scambio con l’ambiente non è più circoscritto alle esigenze immediate; si rende autonomo per dar luogo al bisogno di conoscere e di operare per un costruttivo scambio col mondo che ruota attorno.
Le norme dovrebbero essere canalizzate nella giusta direzione e agevolare il raggiungimento di questi traguardi ma, perché siano recepite in modo stabile e sereno, occorre che sia chiaro l'aggancio agli interessi che vi sono alla base.
Quando queste condizioni si realizzano, l’adeguamento diviene un bisogno intimo dell’uomo, non una forzatura o un sacrificio da compiere, in omaggio a una volontà che dispoticamente lo impone. Il concetto rievoca vagamente quello che ci sentivamo ripetere nei sistemi educativi passati: Bisogna comportarsi in un certo modo per convinzione, non per imposizione.
Nel modo di pensare a cui ci si avvia, si potrebbe tradurre: Bisogna orientare la vita in una certa direzione seguendo un vero bisogno interiore, non per una costrizione esterna.
In ogni generazione, gli adulti dovrebbero orientare i nuovi arrivati nel modo più opportuno perché questo avvenga.
Potremmo, però, chiederci: È questo il modo di pensare corrente?
La legge nell’immaginario comune
Nel modo di pensare comune, le leggi sono ancora viste come un atto autonomo e arbitrario, sia pure a fin di bene, da parte di un legislatore esterno, allo scopo di arginare comportamenti che potrebbero intralciare la serena convivenza.
L’origine di questo concetto risale alle monarchie assolute, quando erano sancite dai sovrani; ai sudditi spettava sottostare, con la minaccia di sanzioni per i trasgressori.
Spesso, per dare maggiore autorità e carattere vincolante, erano presentate in nome delle rispettive divinità venerate.
Anche nella tradizione ebraica, Mosè trasmise la legge in nome di Dio.
Da parte di chi doveva osservarle, esistevano - allora come ora - le scappatoie, in una duplice direzione:
· tentare di ingraziarsi Dio con preghiere e sacrifici, nella speranza di eludere i castighi, anche se si trasgredisce;
· organizzare accurati riti di purificazione, per continuare a sentirsi giusti, nonostante le inevitabili trasgressioni; ai riti di purificazione, nella tradizione cattolica, è subentrata la confessione.
Con l’evoluzione sociale, questa impalcatura, malgrado si voglia puntellare da tutte le parti, diventa sempre più traballante e sorge l’esigenza di una diversa visione.
La legge in un mondo che cambia
Col progressivo avvento delle democrazie, il concetto di legge non è più l’imposizione da parte di un sovrano, ma interpreta (o dovrebbe interpretare!) le esigenze di una collettività, espresse attraverso i propri rappresentanti.
Anche per quest'aspetto, si tratta di un orientamento ideale: suppone un certo grado di maturità sociale che non si può considerare scontato.
Il cambiamento di prospettiva si estende al campo morale. I dieci comandamenti non sono più l'espressione di una volontà esterna, sia pure divina, ma la codifica delle esigenze umane più profonde; ridiventano il decalogo, le dieci parole che costituiscono l’orientamento per una serena convivenza.
Vista in questa luce, la trasgressione non è una disobbedienza a Dio, ma il rifiuto di realizzarsi come esseri umani. La punizione non è più il castigo di Dio, ma l’espressione dell'ordine naturale ferito che si ribella e si restaura autonomamente.
Ci inseriamo, di fatto, nella concezione che fa appello alle cause seconde: per l’uomo di fede, l’uomo è stato creato con la potenzialità di evolversi anche sul piano morale.
Questa diversa prospettiva presenta le norme come un'esigenza intima alla quale fare appello per il vero benessere.
Proseguiamo accennando a un altro elemento che presenta una notevole importanza nella vita di ognuno: la sofferenza, enigma che ha tormentato l'uomo fin dalla sua comparsa sulla terra.
B. La persona matura e la sofferenza
La sofferenza, di qualsiasi genere essa sia, è costituita dalla tonalità affettiva penosa che accompagna la percezione di un limite; è un forte segnale con una finalità ben precisa: spingere a operare per lo spostamento di quello che è all'origine di essa e quindi alla ricerca di un maggiore benessere.
La presenza di limiti è un corollario dell'esistenza delle cose finite, poiché nulla di esse potrebbe esistere senza che sia circoscritto e quindi limitato. Si potrebbe ipotizzare un mondo ideale, immortalità compresa, ma per poter esistere dovrebbe avere dei limiti: un essere intelligente percepirebbe sempre un meglio possibile e il non averlo sarebbe motivo di sofferenza.
Questa tonalità affettiva costituisce la molla che determina il progresso a tutti i livelli; se i nostri antenati non avessero provato disagio nel vivere in grotte, oggi non avremmo case confortevoli; tuttavia aspiriano a qualcosa di ancora migliore che - una volta ottenuto - sul momento appagherà, ma solo sul momento, poiché subentreranno altre aspirazioni e altri motivi di insoddisfazione e di sofferenza.
Pur essendo qualcosa di penoso per tutti, il vissuto della sofferenza è individuale ed è connesso prevalentemente con il livello di maturità raggiunto.
Quest'osservazione porta a evidenziare la differenza di atteggiamento tra l'individuo immaturo e quello maturo di fronte al vissuto penoso:
- L'immaturo, analogamente a quanto avviene nel neonato, concentra l'attenzione sulla sofferenza; ciò paralizza e provoca solo un ampliamento del vissuto penoso.
- La persona matura scorge il vero significato del disagio e opera per la soluzione dei problemi che stanno all'origine; l'esperienza, maturata nei singoli casi e trasmessa, porta lentamente a evitare nel futuro il ripetersi del disagio, per sé e per gli altri, contribuendo, in tal modo, al progresso. Inoltre, la sua presenza non gli impedisce di ampliare l’orizzonte e di godere di quello che di positivo vi è nel resto della vita.
* * *
Le riflessioni fatte fin qui ci portano a considerare il tragitto ideale che accompagna l'uomo alla maturità come una fonte di benessere personale, d'armonia con i propri simili e con la natura; inoltre costituisce tendenza spontanea sia all'adeguamento alle norme di vita e alle leggi, sia a una migliore canalizzazione della sofferenza.
I movimenti culturali, le legislazioni e le fedi religiose hanno, da sempre, tentato di migliorare la vita dell'uomo, ma spesso hanno dato più peso all’ultimo anello della catena: voler regolare i comportamenti, più che agire su ciò che sta alla loro origine.
Il messaggio evangelico, sfrondato dalle tante sovrastrutture accumulate nei secoli, propone in questi due temi una soluzione non limitata alla neutralizzazione delle conseguenze indesiderabili ma un’azione sulle cause che sono alle loro rispettive origini.
C. Gesù e la legge
Gesù non vede la legge come fine a se stessa, ma in funzione degli obiettivi da raggiungere.
Capovolge la prospettiva: parte dalle finalità che si prefigge e la prende in considerazione come un mezzo per raggiungere le finalità stesse. Significativa l'espressione: Il sabato è stato fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato. (Mc 2, 27)
Inoltre, fa costantemente una distinzione tra le leggi e le tradizioni o interpretazioni accumulate nel corso dei secoli.
Parlando alla gente del suo tempo, Gesù doveva necessariamente soffermarsi anche su motivazioni ritenute valide nell'ambiente in cui operava: fare appello a elementi di ordine remunerativo o che potessero portare a vantaggi concreti e tangibili.
Abbiamo un chiaro esempio nell’invito a non scegliere i primi posti nei banchetti; in quella circostanza, propone una motivazione adatta al modo di pensare degli ascoltatori (ciò sarà per te motivo di onore davanti a tutti gli invitati), anche se, nel suo insegnamento, non incoraggia certo queste aspirazioni.
L’insegnamento globale ha un tenore diverso: l’invito alla conversione, inteso come cambiamento radicale delle disposizioni interiori, non semplicemente di alcuni comportamenti esterni.
Pur non usando la terminologia di oggi, propone motivazioni connesse con bisogni intimi, quali il superamento dell'egocentrismo per aprirsi agli altri, la formazione di un ideale dell’io e la traduzione di questo ideale in una modalità di relazione adeguata: l'amore.
Paolo di Tarso, tradurrà questo capovolgimento di prospettiva opponendo la legge alla fede; ovviamente, fede non intesa come pura credenza in qualcosa, ma come pieno coinvolgimento attraverso l’interiorizzazione dell’immagine di Gesù e l’adeguamento della propria vita al suo insegnamento.
Come già accennato, nella tradizione cristiana si sono enfatizzate motivazioni centrate sull'esterno, ritenute efficaci nel passato: la prospettiva di premi o castighi eterni.
Alla luce delle attuali conoscenze, è possibile andare oltre una lettura convenzionale per scoprire nei vangeli aspetti ai quali prima non si prestava la dovuta considerazione.
Gesù, rivolgendo l’attenzione allo scopo della legge, lascia in secondo piano, non solo ciò che è marginale, ma anche gli eccessivi sensi di colpa e le inutili espiazioni.
In questa diversa prospettiva:
o Gesù si connette col principio fondante della legge.
o Vede la legge come ideale di vita, concretizzato nell'amore.
Gesù si connette col principio fondante della legge
Nel noto dialogo con un dottore della legge, Gesù risponde senza esitazione e va oltre completando il suo punto di vista:
Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti.
(Mt 22, 36-40)
Non si limita all’esposizione di un concetto scontato in quell’ambiente; intende chiarire come, partendo da esso, si articolano tutta la legge e gli insegnamenti dei profeti.
Non sappiamo il termine usato da Gesù in aramaico; l’Evangelista, scrivendo in greco, usa il verbo kršmamai (crémamai) che significa appendo (letteralmente: in questi due comandamenti tutta la legge è appesa e i profeti). Se si elude il presupposto, l’impalcatura crolla, poiché viene a mancare il gancio al quale è appesa; le norme perdono il loro senso e diventano vuote imposizioni.
La piena attuazione del messaggio dell’amore renderebbe superflua qualsiasi legge, come precisa anche Paolo di Tarso (la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori); si tratta, però, di un ideale che nessuno, di fatto, raggiunge pienamente.
Agostino d'Ippona insiste su questo concetto ed esorta:
Dilige, et quod vis fac (Ama e fai quello che vuoi). (In Io. Ep. tr. 7, 8)
La legge interviene ponendo riferimenti concreti (le dieci parole), in considerazione delle inevitabili debolezze individuali e per evitare aberranti interpretazioni soggettive, sia pure in buona fede.
È questo il motivo per il quale Gesù non intende sconfessare la dottrina e la legislazione esistente. Vuole, però, dare a esse un’anima riportandole al loro significato originario e autentico: un mezzo per attuare una serena e ordinata convivenza, nell'interesse comune.
Non pensate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto per annullarli, ma a dare pieno compimento. (Mt 5, 17)
Il compimento consiste proprio nel capovolgere la prospettiva per raggiungere la finalità: l’attuazione del piano della Provvidenza perché si realizzi il regno dei cieli.
Questo concetto presuppone un cambiamento radicale nell’orientamento di vita. Il criterio di moralità non è più l'analisi delle singole azioni, che possono essere causate da momentanea debolezza, ma la prospettiva globale: l’opzione fondamentale, diremmo oggi.
Per questo motivo parla di vestito nuovo e di otre nuovo.
Un ridimensionamento frettoloso delle regole, non preceduto da un nuovo orientamento di vita, avrebbe rischiato di far ripiegare verso atteggiamenti di comodo e di lassismo, ben lontani dallo spirito del suo insegnamento.
Solo dopo questa premessa, può affermare che la legge non è fine a se stessa, ma serve solo a migliorare la vita dell’uomo.
Vede la legge come ideale di vita
Il traguardo che Gesù pone è un ideale di perfezione senza limiti, pur consapevole delle inevitabili cadute.
A conferma, soffermiamoci a riflettere sull’atteggiamento di Gesù di fronte alle trasgressioni; possiamo evidenziare tre aspetti:
- Il linguaggio usato.
- I concetti sottintesi.
- Il comportamento concreto di fronte a chi commette il male.
Tenendo conto del modo di pensare del tempo, Gesù, per essere capito, deve adeguarsi al linguaggio corrente. Inoltre, conosciamo quanto diceva attraverso le elaborazioni delle prime comunità cristiane, filtrate e tradotte dagli evangelisti; le espressioni veramente usate, potrebbero essere state diverse.
Andando oltre le espressioni letterali, notiamo come Gesù parli costantemente del bene da espandere; possiamo quindi intuire che egli concepisse il male come limite al bene, più che come entità da combattere.
Eloquente l’immagine usata dall’evangelista Giovanni; parla del bene e del male raffigurati nella luce e nelle tenebre: le tenebre non sono un’entità ma solo la mancanza di luce.
Pur condannando il male, come già osservato, Gesù non criminalizza il peccatore, né impone penitenze.
Rientra nella natura umana la difficoltà a realizzare pienamente un ideale infinito e l’incorrere in trasgressioni, piccole o gravi.
Di fronte ai casi concreti, manifesta sempre comprensione; non impone penitenze a scopo espiatorio; si limita all’invito a non perseverare.
L’episodio della donna adultera è particolarmente indicativo e sintetizza l’atteggiamento costantemente avuto da Gesù nei riguardi dei peccatori.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?
Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù, si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei.
E chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo e la donna era là in mezzo.
Allora Gesù si alzò e le disse: Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?
Ed ella rispose: Nessuno, Signore. E Gesù le disse: Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più. (Gv 8, 3-11)
L’Evangelista dice: per metterlo alla prova.
Ciò significa che il suo insegnamento non doveva avere caratteristiche fiscali.
Mettendo Gesù di fronte a un fatto inequivocabile, pensano di incastrarlo: se avalla una condanna, per loro scontata, è costretto a ritrattare l’atteggiamento comprensivo dimostrato; se propone un’assoluzione, va palesemente contro la legge e si espone a denuncia.
La risposta di Gesù li costringe a desistere; rivolto alla donna la esorta semplicemente a non perseverare nelle trasgressioni. Non le impone alcuna penitenza a scopo espiatorio.
Con quest’episodio Gesù vuole insegnare che la legge prospetta un ideale di vita al quale attenersi; nello stesso tempo prende atto che la debolezza umana può portare spesso a comprensibili trasgressioni. Dice, infatti: Chi di voi non ha peccato scagli la prima pietra.
Quello che conta è non perseverare e non fare delle trasgressioni una regola di vita.
D. Sofferenza e amore nell’insegnamento di Gesù
Due millenni di tradizione cristiana hanno dato un'immagine tetra del cristianesimo, tanto da far dire a un poeta di fine ottocento:
Cruciato màrtire tu cruci gli uomini,
tu di tristizia l’aër contamini:
ma i cieli splendono, ma i campi ridono, ...
... (G. Carducci, Odi barbare. 1877)
Era questo l'insegnamento di Gesù?
Scorrendo le pagine dei vangeli con atteggiamento sereno, emerge un quadro rassicurante e gioioso; la tensione che s'intravede è orientata al raggiungimento di questo traguardo.
Non conosciamo la reale successione cronologica dei fatti citati dagli evangelisti. Nel Vangelo di Giovanni la vita pubblica di Gesù si svolge - simbolicamente - tra due scene conviviali: le nozze di Cana e la cena pasquale.
Inizia con un miracolo, anche questo dalla forte valenza simbolica: l’acqua, destinata alle purificazioni, cambiata in vino, metafora di festosità e di gioia.
Nella sua predicazione, egli costantemente rivolge un invito rassicurante:
Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero. (Mt 11, 28-30)
Prospetta, inoltre, un ideale di pace interiore:
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. (Gv 14, 27)
Pace, (שָׁלוֹם šālôm), il saluto ebraico, sono le ultime parole di Gesù rivolte ai discepoli riuniti prima della passione e le prime dopo la resurrezione.
Il termine ebraico di saluto, allora in uso, ha un significato molto più ampio e pregnante del corrispettivo italiano; indica uno stato di benessere derivante da un sereno rapporto con gli altri, dal pieno equilibrio interiore e dalla comunione con Dio.
Parlando di pace, Gesù precisa: non come la dà il mondo; quando in altro contesto aveva detto: non sono venuto a portare la pace, si riferiva proprio a quel tipo di pace che dà il mondo, il semplice quieto vivere.
La pace promessa da Gesù è il superamento dello stato di conflitto interno e delle paure; il saper guardare le vicende umane come trasparenti, con gli occhi della fede e intuire quello che conta veramente.
Nell'insegnamento di Cristo traspare il costante invito a dare un senso alla vita presente e guardare tutto in funzione di esso. In questa prospettiva non si ha nulla di personale da difendere, nemmeno la propria vita (chi vuol salvare la propria vita la perderà…).
Quando si è veramente protesi verso il bene comune, anche il sacrificio della propria vita non è più il male supremo.
È questo l'esempio che egli ha lasciato.
Non sempre, nella tradizione seguita, si è fatto riferimento a questi traguardi che suppongono una piena assimilazione dell'insegnamento proposto.
La difficoltà nel raggiungere l’equilibrio nella sua pienezza ha indotto a spostare l’attenzione verso l’aspetto consolatorio della fede, proiettata in una ricompensa extra-terrena.
Osserviamo più da vicino i concetti espressi fin qui:
o L'invito all'amore, coazione o ideale di vita?
o L'attuazione è fatica o una gioia? È un dovere o un piacere?
o La croce progetto di vita o necessità contingente?
L'invito all'amore, coazione o ideale di vita?
Da quanto abbiamo osservato, il processo che conduce alla piena maturità segue un percorso ben preciso: il graduale superamento dell'egocentrismo infantile per giungere alla piena maturità, consistente nell'aprirsi a realtà fuori di noi in un autentico rapporto d'amore.
Proprio a questo invita Gesù:
Come il Padre ha amato me, anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. (Gv 15, 9-13)
Supera anche il criterio tradizionale di amore per il prossimo; pone come riferimento non più l’amore verso se stessi, ma il suo amore. Non sempre noi amiamo autenticamente noi stessi; spesso siamo semplicemente preoccupati di noi e dei nostri interessi egoistici. Renderemmo un buon servizio al prossimo invitando il masochista ad amarlo come ama se stesso?
Come ampiamente osservato, la piena attuazione dell'amore risponde al bisogno profondo di ogni uomo maturo che giunge alla piena realizzazione di sé.
L'amore è fatica o una gioia?
Il piacere è sempre legato alla soddisfazione di un bisogno.
Il bisogno consiste in uno stato di tensione dovuto alla mancanza di qualcosa necessaria per il proprio benessere, sia essa a livello organico (fame, sete, …), sia di ordine psicologico.
Soggettivamente, la percezione di una tale mancanza costituisce un vissuto penoso che serve da stimolo che spinge l’individuo verso il raggiungimento di un equilibrio in cui la tensione si annulla; è proprio l’annullamento della tensione che determina la sensazione di piacere.
Perché vi sia piacere è sempre necessario che sussista un bisogno da soddisfare: tutto quello che accompagna questo processo di riduzione del bisogno, compreso lo sforzo per il conseguimento dell’obiettivo, rientra nel vissuto piacevole.
Quando, col raggiungimento della piena maturità, l’amore diventa un’intima esigenza, la sua realizzazione è un piacere e fonte di gioia; tutto quello che è connesso alla soddisfazione del bisogno diventa leggero ed è coinvolto nell’alone di essa.
Dalla nostra esperienza quotidiana, sappiamo che quanto facciamo per la persona amata non pesa, anche se comporta notevoli sacrifici; le stesse cose, se ci venissero imposte, ci apparirebbero pesanti e forse ci rifiuteremmo di farle.
Allo stesso modo, tante azioni, se imposte da una legge, potrebbero riuscire pesanti; se fatte come gesto di amore sentito, diventano un piacere.
L'insegnamento di Gesù coincide proprio con questo traguardo: se la legge dell’amore è autenticamente assimilata e diventa parte costitutiva del proprio essere, si trasforma in un bisogno interiore; l’adeguamento a essa diventa un piacere.
Forse alludeva a questo l'autore del Salmo 18:
I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.
Il discorso di addio, nell’ultima cena, ne costituisce la sintesi e nello stesso tempo è un inno all’amore.
Nel passato, concetti del genere sono stati presi in considerazione in modo ambiguo. Parlando, ad esempio, di amore verso il prossimo, alcuni autori si premuravano di precisare i motivi che lo dovrebbero alimentare: non l’interesse per i propri simili né, tanto meno, il piacere che ne potrebbe derivare, ma solo l’amore di Dio e l’ubbidienza al suo comando.
Sarà irriverente il paragone, ma era come voler dire:
Accarezza il cane per ingraziarti il padrone.
Il presupposto da cui si partiva era la necessità di considerare tutto come un dovere e un sacrificio, in modo da renderlo meritorio e da far accumulare crediti nei riguardi di Dio.
Il piacere, in se stesso, percepito come voluttuario, era considerato qualcosa di torbido da cui rifuggire, quasi da identificare col peccato.
Se riuscissimo a rendere un piacere ciò che contribuisce a migliorare la nostra vita e quella dei nostri simili, che motivo avremmo di scomodare il dovere?
Oggi si tende a riabilitare il piacere, ma sentiamo ancora il peso di una tradizione che ha permeato il pensiero religioso, a dispetto del Servite Domino in laetitia, (Servite il Signore nella gioia) che da sempre abbiamo cantato nelle nostre liturgie.
La croce, progetto di vita o necessità contingente?
Nel passato si accennava a idee di questo genere, ma solo superficialmente e con molte riserve, come una concessione per non allontanare tanti dalla fede; si preferiva sorvolare, come a voler dire: Si, però la vera via è quella della croce …
Potremmo, ora, aggiungere: Si, bisogna prendere la propria croce, ma ci sono tempi e modi, come Gesù stesso aveva detto: …verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno.
Dopo tutto, è proprio indispensabile rendere una croce ciò che potrebbe anche non esserlo?
Gesù non vede la sofferenza come qualcosa da cercare.
La sofferenza non va cercata, nemmeno a scopo espiatorio; la vita purtroppo ne riserva, senza che noi la inseguiamo.
Col suo insegnamento, Gesù ci invita a finalizzare lo sforzo nel fare del nostro meglio, più che abbandonarci a inutili espiazioni o riti equivalenti; in altri termini, ci invita a guardare avanti, non a ripiegare su un passato che non è in nostro potere modificare.
Da non perdere di vista l’insistenza di Gesù sul perdono dei peccati, ripetutamente espresso:
... e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati ,... (Lc 24, 47)
... Vi sia dunque noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunciato il perdono dei peccati. (At 13, 38)
Il concetto sottostante è una visione della legge morale come un ideale di vita al quale tutti siamo invitati ad aderire in modo autentico, nella misura in cui ci è ragionevolmente possibile.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. (Errare è umano, ma perseverare è diabolico).
È lontano dal pensiero di Gesù l’atteggiamento di lassismo, per poi cercare di espiare con digiuni e con masochistiche autopunizioni le inevitabili trasgressioni.
La tendenza al facile ripiego di voler annullare le colpe con l’espiazione è connaturata con l’essere umano ed è presente in tutte le fedi religiose, anche se innesca una sterile ripetizione; il pensiero della possibilità di espiazioni e di purificazioni rende più tolleranti con se stessi.
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Penso sia legittimo chiedersi il motivo per cui anche la tradizione cristiana abbia preso la piega di una certa esaltazione di atteggiamenti tendenzialmente masochistici.
Non intendiamo parlare di sofferenze - del tutto giustificate e in linea con l’insegnamento di Gesù - affrontate per il bene di altri.
Vorremmo accennare alla sofferenza gratuita o alla rinuncia immotivata a un legittimo piacere.
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L’argomento è complesso; possiamo avanzare solo ipotesi vaghe e limitate all’aspetto psicologico.
L’elemento comune a tante forme di autopunizione è riducibile a comportamenti penosi inizialmente subiti; col passare del tempo il soggetto si crea una qualche giustificazione e arriva a conferire a essi una qualche connotazione di piacere.
Potremmo scorgere un vago parallelismo in abitudini riscontrabili nella vita corrente. Difficilmente si prova piacere la prima volta che si beve una birra o un superalcoolico o un amaro o che si fuma una sigaretta; insistendo diventano gradevoli e possono trasformarsi in un bisogno.
Alla base vi è una potenzialità insita nell’uomo e finalizzata a forme di adattamento; le esperienze o i condizionamenti ambientali possono, poi, far assumere modi differenti e far trovare giustificazioni plausibili per spiegare tali adattamenti.
Non è raro incontrare persone che si fanno vanto della sofferenza, come a voler dire a se stesse: Se soffro e riesco a sopportare la sofferenza sono migliore degli altri. Le varie religioni, da canto loro, non scoraggiano certo la sopportazione.
Parlando del cristianesimo, c’è da aggiungere che, nei primi secoli, i seguaci della nuova religione erano oggetto di persecuzioni e si trovavano nella necessità di farsene una ragione. Le prime comunità cristiane e poi i padri della Chiesa potrebbero aver contribuito a dare corpo al bisogno connaturato nell’uomo, positivizzando tali sofferenze nei vari modi che hanno permeato il pensiero consacrato dalla tradizione: la compartecipazione alle sofferenze di Cristo, la condizione per l’accesso alla vita eterna, …
Oggi qualcuno, sia pure in modo irriverente, è portato a chiedersi se Dio sia un sadico che goda delle sofferenze e delle rinunzie dell’uomo e le annoti nella colonna dei meriti di ciascuno ai fini di una ricompensa nella vita eterna!