Parte quarta - Riflessioni conclusive
Parte quarta
Riflessioni conclusive
Viandante,
il sentiero non è stato tracciato
ma la strada si apre davanti a noi
mentre la percorriamo.
(Antonio Machado)
Il riscatto
L'uomo è chiamato
a dare un senso alla vita:
realizzare pienamente se stesso
come membro della grande famiglia umana,
in sintonia col messaggio evangelico
e inserendosi nel percorso delle grandi civiltà.
Il pensiero si evolve
seguendo i ritmi dei mutamenti sociali
e si concretizza in ciascuno
in accordo con le proprie intime esigenze.
Il senso della vita consiste
nella spinta a superare l’egocentrismo
che caratterizza l’età infantile
per realizzarsi pienamente come esseri umani
orientati al bene comune,
in armonia con quanto ci circonda.
Il senso da dare alla vita è un problema che accompagna l'umanità nel corso dei millenni e non è certo mia pretesa voler dire l'ultima parola.
Ho tentato di evidenziare la mia visione del traguardo della vita del singolo individuo: superare l’atteggiamento egocentrico per aprirsi agli altri, nella ricerca del bene comune, analogamente a quanto avviene nella scala degli esseri viventi, nei quali il bene della specie è prioritario rispetto a quello del singolo individuo.
La vita individuale, se vista come fine a se stessa, appare priva di valore; acquista un senso come minuscolo contributo alla realizzazione del bene di tutti.
Come la singola cellula, pur avendo una certa autonomia e un proprio ciclo vitale, ha un significato solo come parte costituente dell'intero organismo, così il singolo uomo acquista un senso se inserito in una realtà più vasta.
Allargando il campo, l'evoluzione dell'ordinamento sociale segue la stessa direzione: agli interessi dei singoli individui o dei singoli gruppi, va subentrando l'esigenza di una convivenza armoniosa di tutta l'umanità, nel rispetto e nella benevolenza reciproca.
Per il credente, in filigrana, s'intuisce la regia di una sapiente e misteriosa causa prima che orienta il creato in una precisa direzione, anche se attraverso vie non sempre comprensibili all'uomo.
Vi sono casi - purtroppo numerosi - in cui quest'orientamento non procede nella direzione ideale o si realizza solo in parte. Il motivo è da cercare nella presenza di anomalie che intralciano la corretta evoluzione.
È proprio il contribuire alla rimozione di queste anomalie - in se stessi e negli altri - che può dare un significato alla vita di ciascun essere umano.
1. La visione del mondo e la fede
Parlando di fede religiosa, non intendiamo riferirci all’operato di chi si limita a qualche pratica esterna, senza alcun coinvolgimento della propria vita.
Nel mio discorso, inoltre, vorrei prescindere dalle connessioni col soprannaturale, che io da psicologo non mi sento di affrontare. Anche se ne accennerò, vorrei anche andare oltre la connessione tra il tempo e l'eterno.
Il benevolo e paziente lettore si renderà anche conto che non intendo nemmeno entrare in merito alla controversia pelagiana.
Sul piano umano possiamo scorgere, nel messaggio evangelico, un invito ad agire sulle cause: diventare persone veramente mature, raggiungendo la piena capacità di amare e realizzarsi integralmente come persone umane.
Tenterò di riprendere la lettura del messaggio evangelico alla luce delle considerazioni fatte fin qui.
Vorrei prendere come riferimento la parabola del figliol prodigo, che mi sembra emblematica.
Si notano nel figlio e nel padre due atteggiamenti paralleli, sebbene su piani diversi.
Qual è il senso delle parole del figlio:
Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te?
In che cosa ha peccato? A rigore, non aveva trasgredito: aveva chiesto un suo diritto e il padre aveva accondisceso.
Se riflettiamo bene, il peccato consiste nel comportamento immaturo del figlio che cede al piacere immediato; non riesce a proiettarsi nel futuro e a cercare un piacere durevole, nel suo stesso interesse. Anche nel ritorno alla casa del padre, più che mosso da un autentico pentimento, lo fa perché spinto da un bisogno immediato: la fame da soddisfare.
Il figlio maggiore, non dimostra, nemmeno lui, un comportamento esemplare; più che l’amore fraterno, prevale l'egoismo, la gelosia e l’astiosità, dettati dal pericolo di perdere il possesso esclusivo del patrimonio familiare rimasto.
Il padre si pone su un piano diverso nei riguardi di entrambi: l’amore, non condizionato dal comportamento dei figli.
Non aveva forzato la volontà del figlio minore che aveva deciso di allontanarsi; quando egli ritorna, non si limita a soddisfare la sua richiesta: lo reintegra nella condizione di figlio.
Nei riguardi del maggiore mostra comprensione, lo rassicura e lo invita ad ampliare l’orizzonte.
Non vi sono condanne o penitenze per espiare, ma solo incoraggiamenti a riprendere e proseguire il cammino verso un comportamento maturo.
* * *
Da quanto esposto fin qui, la rivelazione appare una progressiva intuizione del vero bene affiorata nell’umanità nel corso dei millenni.
La redenzione è il mezzo concreto per raggiungerlo, attraverso un modello da introiettare, perché agisca dall’intimo dell’uomo. Con la sua opera redentiva, Gesù valorizza le intuizioni emerse, le rilancia in un messaggio coerente e accompagna l'uomo - a cui spetta attuarle - verso la realizzazione del traguardo prospettato.
Riflettiamo su questi aspetti iniziando con una considerazione di fondo e proseguendo sulla riflessione su come Gesù si presenta.
A. Natura non facit saltus
Non intendiamo disquisire sul significato attribuito a quest’assioma da Leibnitz o da Linneo né sul concetto di entelechia in Aristotele.
Gli eventi naturali si svolgono seguendo una progressione e nel pieno rispetto delle leggi della natura, anche se non sempre le attuali conoscenze scientifiche riescono a chiarirne tutti i passaggi. Il criterio è valido anche nell’evoluzione sociale - come abbiamo ampiamente visto nei capitoli precedenti - e trova un riscontro nello sviluppo graduale del comportamento umano: si giunge alla maturità seguendo un percorso progressivo. L’agire concreto, poi, segue il concatenarsi di bisogni, pulsioni e motivazioni, spesso veicolati da stati emotivi, quali il piacere da ricercare o la sofferenza da evitare. Pensiamo che questo concetto si possa estendere al campo religioso. Negli eventi storici riferiti dai testi sacri, gli interventi attribuiti alla divinità si attuano attraverso la natura o azioni umane, anche se a volte presentate in forma mitizzata.
Ci si potrebbe chiedere:
· Non poteva, una divinità onnipotente, intervenire dall’alto, senza la mediazione dell’uomo o della natura?
· Era proprio necessario passare attraverso quelle che oggi consideriamo atrocità per arrivare a rapporti più armoniosi tra gli uomini?
· Nei racconti post-pasquali, non poteva il Risorto manifestarsi a tutti in modo inequivocabile anziché far scoprire l’evento attraverso la fede?
· Nell’uomo stesso, non poteva cambiare il suo modo di pensare e di agire senza l’intervento martellante dei profeti?
· Alla luce di questo, andando oltre, quale senso dovremmo attribuire al rito o alla preghiera per chiedere un intervento diretto divino - in deroga alle leggi naturali da lui stesso stabilite - per risolvere un problema concreto a vantaggio del singolo, anche se a discapito di altri?
Una serena lettura dei testi sacri farebbe pensare a una creazione con la potenzialità autonoma di evolversi, come una realtà che contiene in se stessa il traguardo finale verso cui tende il progredire naturale in tutte le sue espressioni, ivi comprese manifestazioni che sfuggono alla nostra osservazione abituale.
Il pensiero va spontaneo a ciò che oggi chiamiamo miracoli, eventi straordinari invocati nelle varie religioni come avallo divino dei loro rispettivi messaggi ed enfatizzati da una certa apologetica per lungo tempo dominante; ovviamente, come conseguenza, ogni fede religiosa è portata a negare il valore di miracolo a quanto accade nelle altre fedi.
Non è nostra intenzione affrontare questo delicato e controverso problema; ci limiteremo a qualche osservazione tenendo d’occhio il campo scientifico e quello religioso.
Nei testi biblici qualsiasi fenomeno naturale - a partire da quelli atmosferici - o i fatti storici, dal più banale all’insolito, erano attribuiti a interventi diretti della divinità. Fa riscontro Agostino d’Ippona; in una delle sue Omelie, osserva, a proposito della moltiplicazione dei pani, che quei cinque pani erano come semi, non affidati alla terra, ma moltiplicati da colui che ha fatto la terra.
Soliti o insoliti, sono tutti segni dell'amore e del potere divino. A conferma di questo, possiamo osservare che nei testi biblici non esiste un termine unico rispondente al concetto di quello che oggi chiamiamo miracolo. Spesso si parla solo di segni.
Col progredire delle scoperte scientifiche e la definizione delle leggi che regolano il nesso tra fenomeni, è subentrata la pretesa di conoscere tutto e si è giunti a una radicalizzazione delle posizioni.
Il concetto di natura autonoma rispetto al creatore retta da cause seconde e quindi la distinzione moderna fra azioni o cause naturali eccezionalmente convergenti - considerate provvidenziali - e azione divina che si sostituisce al gioco degli agenti naturali, nel passato non aveva l'importanza che noi oggi siamo portati a conferire.
Fra i cristiani, oggi alcuni considerano superata la nozione stessa di miracolo; altri, al contrario, si mostrano particolarmente interessati a prodigi, apparizioni e a tutto quello che vi ruota attorno.
In entrambe le posizioni, i fatti straordinari sono visti come una sfida alle leggi naturali per soddisfare una richiesta interessata, perdendo di vista la loro funzione di segni; ci si cura meno di pensare su quello che veramente conta: l’insegnamento che l'atto straordinario nasconde.
Particolarmente significativo appare il commento di Gesù sull’interesse della folla che lo cercava dopo la moltiplicazione dei pani riferita dall’Evangelista Giovanni:
In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.
La vera fede ha da sempre considerato tutto un miracolo e un dono di Dio, sia che si tratti di un evento ordinario, sia che si tratti di qualcosa di insolito; ciò che li distingue è lo stupore e la meraviglia che accompagna l’inconsueto.
Sono in tanti, oggi, che considerano il cosiddetto “miracolo” come una proiezione nella divinità del malcostume umano: il favoritismo nei riguardi dei propri devoti o il cedere alle raccomandazioni (intercessione dei santi), derogando alle leggi da Dio stesso tracciate. Per spiegare fatti insoliti, tanti preferiscono pensare a leggi più ampie, non ancora conosciute ed esplorate, che includano fenomeni connessi con elementi che sfuggono alle attuali indagini scientifiche, quali il misterioso mondo dello spirito e della fede.
Un moderno scienziato, Alexis Carrel, premio Nobel per la medicina, testimone oculare di un evento straordinario incontestabile, accuratamente descritto nel libro pubblicato postumo Viaggio a Lourdes, osserva:
Noi non conosciamo quasi nulla, dal punto di vista biologico, dei fenomeni possibili. Non bisogna negare nulla in nome di leggi che conosciamo troppo poco.
A riflettere bene, si tratta di leggere gli eventi naturali e sociali, che si snodano nel tempo, come espressione di una volontà divina - volendo usare un’immagine antropomorfizzata - che li ha determinati in un atto creativo fuori dal tempo; per la loro comprensione è necessario valutarli alla luce della finalità da raggiungere.
Analogamente, nel processo evolutivo del singolo individuo, possiamo scorgere la potenzialità di raggiungere quel grado di maturità che lo porti spontaneamente al bene.
Pensiamo che sia possibile ricercare in questa direzione il vero senso della religiosità, la visione sacra del mondo e il modo più autentico di vivere la propria fede.
Come più volte accennato, la conseguenza pratica è di privilegiare l’azione rivolta alla realizzazione del piano della Provvidenza, più che implorare, di volta in volta, interventi dall’alto per risolvere i nostri piccoli o grandi problemi.
Ovviamente è un concetto da chiarire; uno dei tanti rischi è indulgere all’efficientismo a scapito dell’interiorità che porti a una seria riflessione sulle proprie disposizioni profonde.
Postremum sed non ultimum (infine, ma non come ultima cosa), un argomento che non intendiamo affrontare perché esula dalle nostre competenze: la scissione radicale tra naturale e soprannaturale che ha trovato terreno fertile nei primi secoli del cristianesimo per l’influenza della filosofia platonica e ha innescato le discussioni teologiche protratte costantemente nella tradizione cristiana.
Pur non volendo entrare in merito, non possiamo nascondere una qualche simpatia per il pensiero di Henri de Lubac che connette il problema col desiderio dell’infinito connaturato nell’uomo, più che enfatizzare l’intervento divino che sovrappone il soprannaturale alla natura umana; il concetto trova un riscontro in Tommaso d’Aquino che parla di un naturale desiderium videndi Deum (desiderio naturale di vedere Dio).
Ne abbiamo voluto accennare per la connessione con alcune tendenze della spiritualità moderna più propensa a dare spazio alle cause seconde.
Ripercorriamo alcuni aspetti del messaggio di Gesù di Nazareth alla luce di queste considerazioni.
B. Gesù si presenta come Figlio dell'uomo e Messia
Parlando di sé, Gesù si presenta costantemente come il Figlio dell'uomo. L’espressione è anche presente in altre circostanze nei testi dell’Antico Testamento e nei libri apocrifi.
Non possiamo certo conoscere le intenzioni del Maestro nell'attribuire a sé quest'appellativo; possiamo semplicemente avanzare le nostre congetture.
Andando oltre le disquisizioni sui riscontri nella visione di Daniele e in altri profeti, sui riferimenti nella sezione delle Parabole del Libro di Enoch e sulle espressioni in uso nella Galilea del primo secolo, possiamo soffermarci su due riflessioni:
· Sebbene in varie circostanze si rivolgessero a lui con l'appellativo di Figlio di Davide, egli non lo usa parlando di sé; un tale appellativo avrebbe posto l'accento sull'aspetto nazionalistico.
· La redenzione viene dall'uomo stesso, attraverso un suo figlio che la opera.
Sia pure in modo non sempre esplicito, per non incorrere negli equivoci delle aspettative del tempo, si presenta come il Messia.
Il termine ebraico che significa unto (consacrato da Dio), tradotto in greco con Cristo, indica il senso profondo della sua missione. Fa proprio il senso profondo della visione apocalittica: superamento del modo di pensare esistente e proiezione verso un ordinamento nuovo all’insegna dell’amore e della fratellanza, fatte scaturire dall’intimo di chi ha veramente assimilato il suo messaggio.
L'uomo della strada, nella sua semplicità, sarebbe portato a porsi una domanda: Non poteva, Dio onnipotente, con un intervento dall'alto, cambiare il modo di pensare dell'uomo e l'organizzazione sociale? Era necessario questo giro largo dell'incarnazione?
La domanda riflette la concezione antropomorfizzata di Dio, profondamente radicata nel modo di pensare dei cosiddetti credenti.
Nel suo insegnamento, Gesù invita l'uomo a realizzare il regno dei cieli attraverso l'evoluzione di disposizioni che vengano dal suo intimo.
Già i profeti avevano preconizzato questa prospettiva.
Ezechiele, scrutando nel futuro, prospetta un diverso orientamento del cuore dell'uomo:
... vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. (Ez 36,26-27)
Geremia ripropone lo stesso concetto:
Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi il mio popolo. (Gr 31,33)
A distanza di millenni, farà eco l'intuizione di Kant:
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
(Conclusione alla Critica della ragion pratica,
incisa, poi, come epitaffio sulla sua tomba)
C. Il destino dell'uomo
Le grandi tradizioni religiose parlano di una sopravvivenza dell'uomo e di un giudizio riguardante il comportamento tenuto in vita. Nell'impossibilità di una conoscenza diretta, sono costrette a concepire questa sopravvivenza ricorrendo a immagini mutuate dall'esperienza sensibile e trasportate nel modo di rappresentarsi l’aldilà come prosecuzione della vita per un tempo infinito.
Il messaggio di Cristo è di orientare l’uomo verso la realizzazione del regno dei cieli, una realtà sociale armoniosa vissuta nel tempo e proiettata in una dimensione atemporale.
Nel discorso escatologico affronta espressamente il problema facendo proprio il linguaggio apocalittico del tempo e connettendo la dimensione atemporale col tempo vissuto: il destino di ognuno è la conseguenza del suo apporto nella costruzione del modello di vita tracciato da lui.
Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, si siederà sul trono della sua gloria.
Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi.
Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?
E il re risponderà loro: In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato.
Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?
Allora egli risponderà loro: In verità vi dico: Tutto quello che non avete fatto a uno di questi più piccoli, non l'avete fatto a me.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno e i giusti invece alla vita eterna. (Mt 25, 31-46)
In questa costruzione, chiaramente allegorica, possiamo scorgere tre concetti dominanti:
o Chi giudica
o Su che cosa giudica
o Quando giudica.
Chi giudica
Parlando di giudizio, Gesù non dice che sarà Dio Padre a giudicare, ma il Figlio, come a voler esplicitare che il criterio di giudizio sarà la conformità del comportamento di ciascuno col modello da lui stesso proposto col suo insegnamento e con la sua vita.
In altri momenti aveva detto:
... il Padre infatti non giudica nessuno ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato .… e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo (ὅτι υἱὸς ἀνθρώπου ἐστίν).
(Gv 5, 22-23, 27)
Pur non volendo entrare in disquisizioni linguistiche, appare chiaro che alla congiunzione ὅτι (perché) sia da dare un significato causale: è spiegato il motivo per cui il giudizio spetta al Figlio e non al Padre.
Su che cosa giudica
Abbiamo ampiamente visto come l’insegnamento di Gesù ruoti attorno alla redenzione: ristabilire l’ordine previsto dal piano della Provvidenza, dando priorità al bene comune sugli interessi egoistici.
Proprio in questo consiste il criterio di giudizio, pronunziato da ciascun uomo, con le sue scelte; l'eventuale condanna non è quindi pronunziata da Dio in base alla trasgressione di un suo ordine, ma dall’uomo stesso in base al rifiuto di realizzarsi come essere umano, sul modello che il Figlio dell’uomo ha portato.
La via della salvezza non è certo eludere il piano della Provvidenza, tentando di ingraziarsi la divinità attraverso un culto formale, senza adeguare il proprio comportamento alla direzione prevista dalla Provvidenza stessa.
Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. (Mt 7, 21)
Quello che conta, nel criterio di giudizio, sono le azioni concrete in questa direzione:
Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni.
(Mt 16, 27)
Quando giudica
Intorno al primo secolo, il clima di attesa pervadeva l'ambiente giudaico e aveva contagiato le prime comunità cristiane; vivendo nell'attesa di un evento prossimo ad accadere, non si curavano di programmare una vita terrena proiettata nel futuro.
Superata la convinzione di una fine del mondo imminente, elaborarono la concezione consacrata dalla tradizione e giunta fino a noi.
Si tratta di una trasposizione nel tempo di concetti che esulano da questa categoria; fu un procedimento necessario per renderli comprensibili. Volendo tentare una decodifica per avvicinarci al loro senso profondo, possiamo avanzare alcune riflessioni, sebbene difficilmente comprensibili attraverso la nostra logica.
I riferimenti spazio-temporali sono una necessità connessa col nostro sistema di conoscenza. Per la divinità non esiste spazio né tempo, esiste solo l’eternità, definita da Boezio:
Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio (il possesso simultaneo e perfetto di una vita senza fine).
Non è mia intenzione disquisire su questo millenario problema. Mi limiterò ad accennare a tre aspetti che potrebbero aiutare a intuire il nesso tra tempo ed eternità, sebbene si tratti di concetti di difficile comprensione:
· il tempo nel pensiero scientifico,
· nelle elaborazioni della filosofia e
· nei riscontri della psicologia.
- Il tempo nell’attuale pensiero scientifico.
Nel giugno 1905 un oscuro impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna - il ventiseienne tecnico di terza classe Albert Einstein - inviò alla prestigiosa rivista scientifica Annalen der Physik di Berlino uno dei quattro brevi articoli pubblicati in quell’anno e destinati a rivoluzionare la concezione della fisica moderna: Zur Elektrodynamik bewegter Körper (Sull'elettrodinamica dei corpi in movimento).
In esso enunziò i principi della teoria poi chiamata, su suggerimento di Max Planck, della relatività. Fino a quel tempo si consideravano indiscutibili i principi della fisica risalenti a Galileo.
Il tempo e lo spazio erano considerati immutabili per tutti e in tutte le circostanze; si pensava, inoltre, che la luce fosse costituita da vibrazioni di un ipotetico supporto materiale, immobile nello spazio assoluto: l’etere cosmico o luminifero.
Nella nuova concezione, spazio, tempo e velocità sono considerate grandezze fisiche interdipendenti fra loro; formano un’unica entità e subiscono l’influenza reciproca.
Al contrario, la luce si propaga nel vuoto, con una velocità assoluta, sempre costante e indipendente da tutto.
Di conseguenza, il tempo non segue sempre lo stesso ritmo; secondo le circostanze, scorre più lentamente o più velocemente. Allo stesso modo, lo spazio può dilatarsi o restringersi, se misurato in un sistema di riferimento in moto. Si tratta di una teoria difficile da comprendere, poiché bisogna capovolgere ciò che dice la nostra percezione e anche i tradizionali concetti espressi nei libri di fisica.
C’è da dire che, nei fenomeni abitualmente osservabili, le variazioni sono talmente irrilevanti che è del tutto inutile prenderle in considerazione; diventano apprezzabili solo a velocità altissime.
Un esempio tratto dalla nostra esperienza potrebbe aiutarci ad avere una qualche idea, sia pure approssimata, del concetto di relatività. Immaginiamo di viaggiare nel rettilineo di un’autostrada a una velocità costante di centoventi chilometri all’ora ed essere affiancati da un’altra vettura che viaggia a centoventicinque chilometri: ignorando ogni altro riferimento (nell’esempio, la carreggiata e il panorama esterno, paragonabili allo spazio assoluto o all’etere cosmico, in realtà inesistenti) per la vettura che ci sorpassa è come se la nostra fosse più lunga, essendo maggiore il tempo del sorpasso, mentre noi percepiamo l’altra in un tempo dilatato, come se si muovesse a una velocità di soli cinque chilometri orari.
La teoria della relatività ci fa vagamente intuire come, già nella realtà in cui viviamo, lo scorrere del tempo non è sempre lo stesso; i concetti di spazio e di tempo, che fino a ora abbiamo ritenuto assoluti, sono relativi, al punto da far asserire a Einstein che il tempo è un’illusione.
Con l’avvento della fisica quantistica quest’ipotesi è stata avvalorata, tanto da far scrivere a un autorevole fisico vivente:
se vogliamo elaborare una descrizione della natura indipendente dalla nostra percezione io penso che dobbiamo ammettere che il tempo non esiste …
… la sensazione dello scorrere del tempo sarebbe, in un certo senso, un'illusione derivata dall'incompletezza della conoscenza. … (Carlo Rovelli)
È legittimo volere estendere la nostra esperienza e il nostro modo di concepire lo spazio e il tempo a una realtà extra-terrena?
- Il tempo nelle elaborazioni dei filosofi.
Sorvolando sulle concezioni di Parmenide, Eraclito o Platone, vorrei solo accennare ad alcuni punti di riferimento: il pensiero di Aristotele, di Agostino d’Ippona e di Bergson.
Secondo Aristotele (384 a.C. – 322 a.C.), il tempo è qualcosa di non facile definizione; ne fa una descrizione ripresa, poi, da Tommaso d’Aquino e dalla tradizione scolastica:
Numerus motus secundum prius et posterius (Il tempo è il numero – cioè la misura – del movimento secondo un prima e un poi).
Il tempo non può, quindi, prescindere dal movimento e questo, a sua volta, è inseparabile dall’estensione.
Una simile definizione ci conduce indirettamente all’aspetto psicologico: se il tempo è il “numero”, cioè la misura, occorre un soggetto pensante capace di numerare o misurare.
Agostino d’Ippona (354 – 430), affrontando il problema della creazione, manifesta anch’egli la difficoltà nel definire cosa sia il tempo:
Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so: eppure posso affermare con sicurezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe il passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe il presente.
Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più e il futuro non esiste ancora? E il presente, a sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste, se sua condizione all’esistenza è quella di cessare dall’esistere; se cioè non possiamo dire che in tanto il tempo esiste in quanto tende a non esistere? (Confessioni, XI, 14)
Con queste osservazioni, introduce espressamente la dimensione psicologica, nuova rispetto ai filosofi precedenti che avevano preso in considerazione solo l’elemento oggettivo.
Infatti prosegue:
È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell'animo e non le vedo altrove. …
Facendo un salto fino all’età moderna e sorvolando sugli altri numerosi filosofi, mi sembra di particolare rilievo la posizione di Henri Bergson (1859 – 1941) che sviluppa, fra gli altri, concetti già presenti in Agostino.
Forse si potrebbe affermare che la caratteristica prevalente del suo contributo alla storia del pensiero sia il tentativo di rispondere alla domanda: Che cos’è il tempo?
Egli si oppone al concetto di tempo spazializzato, dominante nel mondo scientifico. Lo definisce un concept bátard (concetto bastardo), perché ibridato dall’idea di spazio; lo considera il peccato originale che la nostra mente si trascina e che produce nel nostro modo di pensare, di parlare e di vivere guasti di eccezionale gravità.
Per inciso, Bergson pensa che a questo restringimento di orizzonte sia connessa la genesi del materialismo come forma mentis e come teoria, ma è una considerazione che ci porterebbe lontano.
In considerazione delle necessità imposte dalla vita sociale e nell’impossibilità di una misura diretta, si ricorre al concetto di spazio a esso correlato; non a caso, siamo abituati a misurare il tempo col movimento - nello spazio - delle lancette di un orologio.
Secondo questo filosofo, è diverso il tempo spazializzato e oggettivato, al quale la fisica è costretta a ricorrere, da quello vissuto realmente da ciascuno di noi nella propria coscienza: una realtà interiore in continua evoluzione sul piano qualitativo, non suscettibile di misura. Incisiva è l’immagine del cono rovesciato che egli propone: la punta rappresenta la percezione, in contatto con la realtà, mentre la base del cono costituisce la memoria: entrambe formano un’unica entità.
Il tempo è costituito da memoria del passato, attenzione al presente e attesa del futuro; è la nostra coscienza che ci permette di coglierlo e di assicurare la continuità. Senza di essa non potrebbe sussistere, come non potremmo concepire un fiume, sempre diverso per le sue acque, se non ci fosse il letto su cui scorre.
- Il tempo nella psicologia.
In questi brevissimi accenni mi limiterò a due ordini di considerazioni.
In primo luogo, l’esperienza quotidiana ci mostra come sia diversa la percezione della stessa durata cronologica trascorsa in un’attesa noiosa o in un’attività coinvolgente: nel primo caso ci sembra che il tempo non passa, nel secondo che il tempo vola.
In secondo luogo, a livello più profondo, il tempo vissuto è ciò che veramente ci appartiene sul piano esistenziale, poiché entra a far parte del nostro essere e conferisce valore al nostro vivere.
Nella nostra interiorità, il passato non si annulla: l’io mantiene la sua continuità attraverso il processo di conservazione ed elaborazione di tutto quello che ha vissuto.
Gli eventi che si sono susseguiti perdono la connotazione temporale e permangono come elementi costitutivi del nostro essere, anche se molti di essi scompaiono dal ricordo cosciente.
Ciò appare evidente nella strutturazione della personalità e nella formazione del patrimonio culturale di ciascuno: tutti gli elementi che hanno contribuito alla loro formazione si sono susseguiti nel tempo ma si sono integrati in una realtà nella quale la successione temporale ha perduto la sua valenza.
Possiamo riscontrare una qualche analogia con l’ingestione dei cibi: indipendentemente dalla successione temporale, diventano parte costituente del nostro organismo.
Potremmo far ricorso ad altre immagini.
Pensiamo a un quadro.
È dipinto nel tempo, con pennellate che seguono una dopo l'altra; l'ultimo colpo di pennello pone fine al susseguirsi: il quadro resta immutato, al di fuori del tempo.
Pensiamo anche al prodigio delle stalattiti: per millenni, gocce anonime, lentamente, hanno lasciato una loro traccia. Ogni goccia ha seguito, nel tempo, la sua via ed è scomparsa; la sua memoria resta, senza tempo, pietrificata in stupende architetture.
L’ampia zona dell’inconscio non ha tempo; l'organizzazione delle esperienze vissute e delle aspirazioni perde una qualsiasi successione ordinata e i momenti temporali emergono dall'inconscio mescolati insieme e contestualmente: passato, presente e futuro non mantengono alcuna successione.
Un modo tangibile di costatarlo sono i sogni, nei quali viene meno la razionalizzazione cronologica del tempo: personaggi o fatti passati e aspirazioni future sono simultaneamente presenti; appaiono familiari defunti - anche da molti anni - che interagiscono con noi e con altre persone viventi o con eventi sperati.
Le riflessioni fatte fin qui ci ripropongono la domanda iniziale: Quale senso ha la vita?
2. Quale senso ha la vita?
È la domanda inquietante che l'uomo si è posta fin dal primo sviluppo della capacità di pensare e di andare oltre le esigenze legate alla sopravvivenza e ai bisogni immediati.
Oggi, forse più che nel passato, ci s'interroga ma spesso in modo superficiale, senza soffermarsi nel tentativo di dare una risposta che si traduca in uno stile di vita.
Per molti, consapevolmente o meno, senso della vita s'identifica con scopi parziali da raggiungere, anche se il vero senso non è riducibile a uno scopo particolare o immediato, sia pure legittimo.
Altri, sbrigativamente, preferiscono eludere la domanda convincendosi che la vita non abbia alcun senso.
Non vogliamo entrare in merito alle argomentazioni della nutrita schiera dei sostenitori del nichilismo tanto diffuso, in particolare del nichilismo passivo; dietro la patina di un certo cinismo, vi è spesso il rifiuto egoistico di un impegno costruttivo o sono presenti motivi che eludono la ricerca del vero problema.
Comoda conseguenza di questi atteggiamenti è il rifiuto di qualsiasi lungimiranza e del rispetto della natura e degli altri, giustificato dal pretesto che niente ha senso: tutto è fatto per essere usato, sfruttato e poi buttato.
L'impalcatura filosofica costruita serve solo a coprire un atteggiamento di miope opportunismo.
Forse alludeva a questo Albert Einstein, introducendo il suo saggio del 1934 Come io vedo il mondo:
Qual è il senso della vita, o della vita organica in generale? Rispondere a questa domanda implica comunque una religione. Mi chiederete, allora, ha senso porla? Io rispondo che l'uomo che considera la propria vita e quella delle creature consimili priva di senso non è semplicemente sventurato, ma quasi inidoneo alla vita.
In realtà, ciascuno vede il problema da una sua particolare angolatura e dà la risposta in funzione della prospettiva in cui egli si pone.
È legittimo guardare più da vicino alcune posizioni.
A. La varietà delle risposte
Analizzando le diverse posizioni, riscontriamo una molteplicità di orientamenti.
Quando si hanno seri problemi di sopravvivenza, non c'è spazio per domande di ordine esistenziale. Già il poter sopravvivere costituisce uno scopo; una nota massima ci ricorda: Primum vivere, deinde philosophari (Prima si pensi a vivere, poi a fare filosofia).
Col raggiungimento di un certo benessere, emergono altri obiettivi, anche se spesso legati ad aspetti particolari e riferiti a se stessi, come carriera, successo o aspirazioni del genere.
In questi casi, pur essendo presenti obiettivi, si indulge a un più o meno larvato egocentrismo, spesso nel tentativo o nell’illusione di eludere un problema più inquietante.
Andando oltre, in persone semplici si notano scopi proiettati oltre la propria persona, anche se circoscritti. Non è raro incontrare anziani che, soddisfatti, commentano: Ora posso morire tranquillo. Mio figlio ha trovato un buon lavoro, mia figlia è felicemente sposata, ho dei nipotini che crescono sani, ...
Il loro obiettivo, anche se proiettato all'esterno, è limitato all'ambito familiare; hanno alacremente lavorato in funzione di esso e raggiunto lo scopo, si considerano appagati.
A livello più elevato, la problematica assume un'ampiezza maggiore.
Il singolo essere vivente percorre il suo ciclo: nasce in seno a un altro essere, se ne distacca, dà il suo apporto, spesso inconsapevolmente, nell'ambito di un piano più vasto e passa il testimone a chi lo segue, perché continui verso la realizzazione di una finalità che possiamo solo intuire.
La funzione del singolo individuo non si esaurisce nella propria sopravvivenza e nel proprio benessere; va oltre, verso la realizzazione di qualcosa che investa l'intera umanità.
Einstein, nel saggio citato, prosegue:
Noi esistiamo per i nostri consimili, in primo luogo per quelli che ci rendono felici con i loro sorrisi e il loro benessere e, poi, per tutti quelli a noi personalmente sconosciuti ai cui destini siamo legati dal vincolo della solidarietà.
Cento volte al giorno, ogni giorno, io ricordo a me stesso che la mia vita, interiore ed esteriore, dipende dal lavoro di altri uomini, viventi o morti, e che io devo sforzarmi per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto e continuo a ricevere. ...
L’individuo è quello che è, e il suo significato non gli viene tanto in virtù della sua individualità, ma piuttosto in quanto membro di una grande società umana, che indirizza la sua esistenza materiale e spirituale, dalla culla fino alla tomba.
Se consideriamo la nostra esistenza e i nostri sforzi, non è difficile rilevare che le nostre azioni e i nostri desideri sono legati all’esistenza degli altri, dell'umanità.
Quattro secoli orsono, John Donne scriveva nelle sue Devozioni per occasioni d’emergenza:
Nessun uomo è un’isola
Completo in se stesso.
Ogni uomo è parte della terra
Una parte del tutto.
Se una zolla è portata via dal mare
L’Europa risulta essere più piccola
Come se fosse un promontorio
Come se fosse una proprietà di amici tuoi
Come se fosse tua.
La morte di ciascun uomo mi sminuisce
Perché faccio parte del genere umano.
E perciò non chiederti
Per chi suoni la campana.
Suona per te.
Più di recente, Albert Pine precisa:
Quello che facciamo per noi muore con noi.
Quello che facciamo per gli altri e per il mondo
rimane ed è immortale.
Quale senso avrebbe la vita del singolo se tutto dovesse morire con lui?
Che, in questo pensiero, si possa trovare un riscontro nelle parole di Gesù (Gv 8,51): In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte?
Ciascuno lascia la sua traccia ed esce dal tempo, come in una rappresentazione teatrale, in cui ogni attore entra in scena, assolve al suo ruolo e si ritira: la sua prestazione non è fine a se stessa; conserva un senso come parte di un insieme.
B. Il senso della vita nelle fedi religiose
Le fedi religiose danno risposte variegate, anche se alcuni, con un forte bisogno di essere rassicurati e di rassicurare, le forzano per farle combaciare con le proprie esigenze.
Abbiamo preso - e continueremo a prendere - come riferimento la tradizione cristiana, ma se bene intese e con le opportune trasposizioni di linguaggio, le riflessioni si possono estendere a tutte le fedi religiose e, prescindendo da esse, a chiunque voglia considerare seriamente il proprio destino, sia nella dimensione individuale, sia nella prospettiva sociale e in una proiezione atemporale.
Cerchiamo di chiarire questo concetto connettendoci a quanto detto fin qui.
Abbiamo visto come nella tradizione cristiana si possano evidenziare modi diversi di vivere la propria religiosità:
· Propiziatorio: implorare e sperare interventi dall’alto per avere aiuto nelle necessità.
· Consolatorio: aspettarsi una ricompensa in una vita extra-terrena.
· Operativo: finalizzare la vita per il bene comune, al fine di realizzare quello che Gesù ha additato come regno dei cieli.
L'orientamento concreto, nel passato, ha concesso molto più spazio ai primi due modi, forse perché riflettono le ataviche aspettative egocentriche insite in ogni essere umano.
Nel mondo di oggi, però, in molti sorgono perplessità su posizioni che trovano meno risonanza nella mutata sensibilità.
Questo cambiamento trova, forse, una spiegazione.
Nel passato, come nei tempi biblici, l’uomo era maggiormente in balia della sopraffazione e di mali di fronte ai quali si sentiva impotente; era consequenziale il bisogno di rivolgersi a un’entità superiore dalla quale sperare aiuto e protezione.
Molti salmi ne offrono una drammatica testimonianza.
Nello stesso tempo, le condizioni di vita penose rendevano più sensibili alla speranza in una vita migliore proiettata in un futuro extra-terreno.
Oggi la protezione è più facilmente ricercata nella legalità e l’aiuto è sperato dalla scienza e dalla tecnica.
Quanto al paradiso, le tendenze edonistiche crescenti spingono a cercarlo sulla terra.
È comprensibile che si sia meno sensibili, rispetto al passato a questo genere di motivazioni.
Non è forse casuale la constatazione che la sensibilità a questi aspetti e la conseguente spinta al devozionismo s’incontri, oggi, con più frequenza e in modo più marcato in persone fragili e insicure e nelle donne, che - almeno fino a un recente passato - si sentivano più indifese e bisognose di protezione.
Nulla da ridire, poiché la religiosità deve rispondere ai bisogni di tutti, se non s’inserisse un sospetto inquietante che coinvolge chi ha il compito di aiutare a vivere in modo maturo la propria fede: la larvata confusione tra il bene delle persone e il lasciare spazio alla manipolazione.
A chi è preposto alla cura delle anime non sempre dispiacerebbe l’equivoco ingenerato tra la devozione alla divinità o a chi la rappresenta.
Certamente in perfetta buona fede e con le migliori intenzioni, ma a chi non piacerebbe avere a disposizione gruppi di devoti pronti a ubbidire ai propri cenni?
Nessuno lo confesserebbe a se stesso; è umano - per tutti - voler escludere interessi egoistici e convincersi di nobili intenti alla base del proprio operato!
In un capitolo precedente abbiamo accennato all’uso strumentale della religione nei popoli primitivi.
L’evoluzione culturale non cancella del tutto una tendenza umana sempre latente, pronta ad affiorare, sia pure in forme larvate e non percepibili da chi ne è coinvolto.
In molti, oggi, sorgono perplessità e interrogativi: non potrebbero avere un qualche peso motivi subdoli nell’agevolare la cristallizzazione in forme di dipendenza da interventi sperati dall’alto - per i quali ci si offre come mediatori - anche se a scapito dell’intraprendenza nell’operare per la realizzazione del regno dei cieli?
Ovviamente, operare con impegno per il superamento dei disagi dei propri simili, anche senza aspettare ordini da chi si considera unico abilitato a darli, potrebbe comportare sacrifici.
È sempre più comodo, per sentirsi buoni e accumulare meriti, limitarsi a qualche opera di carità organizzata dalla parrocchia!
Non vorrei gettare un sasso nella piccionaia…!!!
Vorrei limitarmi a un accenno volutamente vago, come spunto di riflessione …. per chi vuole riflettere!
È legittimo chiedersi se Gesù nel suo messaggio intendesse anteporre la dipendenza dalle gerarchie a un forte impegno per venire incontro ai fratelli?
Nelle parole di Gesù nell’ultima cena, l’evangelista Giovanni, usa il termine greco ¢g®ph (agápe), in sé molto pregnante, per indicare l’amore.
Charitas, traduzione latina del termine, nell’uso corrente è stiracchiata secondo l’occorrenza, fino a farla divenire sinonimo di elemosina.
Intendeva questo Gesù?
A parte la disposizione di fondo come atteggiamento abituale di amore e benevolenza, nell’attuazione concreta significa dare al bisognoso affamato il pesciolino che deborda dalla nostra pentola colma, o - considerandolo fratello - condividere con lui gli attrezzi da pesca e metterlo in condizione di procacciarsi ciò di cui ha bisogno, non meno di quanto noi facciamo per noi stessi?
Il termine charitas è riferito anche a Dio, citando l’espressione della prima lettera attribuita all’evangelista Giovanni: Deus charitas est; Benedetto XVI la pone - opportunamente - come titolo della sua prima enciclica ma, nell’uso corrente, si stenta a superare tante ambiguità.
Si tende ad attribuire anche a Dio interventi discrezionali in favore dei devoti che a lui si rivolgono, quasi a usarli per procacciarsi devozione e fedeltà. Si fatica a pensare che abbia dato agli uomini una natura benevola, non perché sia accaparrata da alcuni, ma perché tutti ne traggano il loro sostentamento; che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, senza aspettare suppliche accorate.
Si tratta di un argomento molto delicato da approfondire, poiché investe il significato da dare alla preghiera.
Su altro versante, se osserviamo bene, oggi si fa strada la tendenza a dare più spazio alla ricerca del bene comune; ne sono prova i movimenti di solidarietà sempre più numerosi e incisivi in tutte le parti del mondo, spesso fuori dagli ambiti religiosi. Pur non dichiarandolo, lo sforzo è nella direzione di contribuire alla realizzazione di quello che Gesù chiama regno dei cieli, iniziando col promuovere condizioni più eque.
Karl Rahner parla di cristiani anonimi; forse, fra di essi, molti restano tali solo perché certe frange della Chiesa ufficiale continuano a rimandare un’immagine stereotipata e rifiutano di considerare credenti coloro che non si mostrano ligi alle gerarchie e alle tradizioni, anche a quelle considerate da molti anacronistiche.
La confusione ingenerata da questi slittamenti rende difficile capire quanto il ripiego nell’indulgere alla componente egocentrica subentrata abbia offuscato il messaggio profondo di Cristo che ha tanto insistito sul regno dei cieli.
C. Il Regno dei cieli
Ci sembra, quindi, opportuno focalizzare meglio il significato di questa espressione, considerandola:
1. nella tradizione ebraica,
2. nell’insegnamento di Gesù,
3. nel corso della storia.
Nella tradizione ebraica
Nella concezione escatologica del popolo ebraico era presente la speranza in un inviato da Dio che risollevasse le sorti del popolo dalle condizioni di sofferenza in cui si trovava. Si era così concretizzata l’idea di un messia che realizzasse condizioni ideali, il regno dei cieli (in ebraico מַלְכוּת שָׁמַיִם malkhut shamayim).
Questa espressione, usata con frequenza anche al tempo di Gesù, come l’equivalente di regno di Dio, non indicava una localizzazione celeste; piuttosto era una locuzione prettamente giudaica per parlare in modo riverente di Dio ed evitare di pronunciare il suo nome.
Nelle varie fazioni l’espressione assumeva connotazioni diverse:
• per i farisei si sarebbe realizzato con l’osservanza rigorosa e perfetta della legge;
• per gli zeloti si sarebbe istaurato con la cacciata dei romani e la ripresa della sovranità religiosa e politica di Israele;
• per i gruppi apocalittici, allora presenti, con la fine dell’ordinamento esistente e l’avvento profetizzato da Isaia di nuovi cieli e nuove terre.
Vi erano, inoltre, divergenze, all’interno del giudaismo, sulla delimitazione: se circoscritto nell’ambito della nazione di Israele oppure esteso a tutti i popoli.
Nell’insegnamento di Gesù
La venuta del regno dei cieli o del regno di Dio è il tema dominante della predicazione di Gesù. Non si può capire Cristo senza il regno che Egli è venuto a portare, scriverà Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium.
Nella sua predicazione, Gesù afferma che il regno di Dio è già presente nelle sue parole e nelle sue opere e - nello stesso tempo - è proiettato nel futuro sia temporale, sia extra-temporale.
Vi si insiste maggiormente nei vangeli sinottici.
Il vangelo di Marco, considerato il primo a essere redatto, fin dall’inizio riferisce: … e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi (μετανοεῖτε, metanoeite) e credete nel Vangelo». (Mc 1,15)
Il termine greco, tradotto con convertitevi, più propriamente significherebbe cambiate modo di pensare e di sentire ed è anteposto a quello di credete.
L'evangelista Matteo nel suo vangelo - rivolto particolarmente a ebrei - preferisce il termine regno dei cieli.
Nel quarto vangelo, redatto in un tempo successivo, l’espressione è citata solo due volte e raramente nelle lettere di Paolo di Tarso che non ha conosciuto personalmente Gesù. Le differenze si potrebbero spiegare considerando la confusione esistente nelle prime comunità cristiane col pensiero dominante in quel tempo: l’attesa di un evento straordinario e improvviso che avrebbe cambiato l’assetto sociale.
Col passare del tempo, la costatazione che - con quelle modalità - ciò non avveniva faceva perdere vigore alla formulazione proposta da Gesù.
Ci si orientò verso l’enunciazione consacrata dalla fede cristiana nel cielo, sorta dopo la morte di Gesù, assieme all’idea che egli per primo era stato assunto in cielo dove siede alla destra di Dio.
In realtà, nei racconti dei vangeli, non si attribuisce a Gesù una definizione precisa di cosa intendesse con l’espressione regno di Dio; vi si allude con paragoni e con parabole.
Il riferimento è a un modo diverso di organizzazione sociale e di vedere le cose, in contrapposizione a quello esistente; auspica una realtà dinamica, non legata a un territorio o a un’epoca.
È un regno di giustizia, di libertà e di pace attuato progressivamente attraverso la legge suprema dell’amore; si realizzerà come il seme che silenziosamente germoglia e si sviluppa o il lievito che lentamente fermenta tutta la pasta, seguendo le potenzialità insite in ciascuno di essi.
Gesù fece proprie molte immagini della corrente apocalittica, soprattutto il pensiero che sta alla loro base: la non rassegnazione e il rifiuto del modo di pensare e di vivere esistente e l’aspirazione verso un mondo diverso.
Non traspaiono mai atteggiamenti di chiusura in un gruppo di “eletti”, tanto meno attesa di eventi catastrofici.
Il rifiuto, inoltre, non è inteso come fuga dalla realtà, ma impegno verso un suo cambiamento.
Il regno, per il quale ci invita a pregare, non viene in astratto o in modo autonomo, ma nella misura in cui ciascuno entra nel suo progetto e realizza nella propria vita le relazioni con i fratelli e col mondo tracciate nel suo insegnamento.
Il disegno di Dio è che il vecchio mondo si trasformi gradualmente nel suo regno.
Con la sua predicazione e il suo esempio, Gesù innesca la grande operazione culturale che caratterizza il cristianesimo nascente imperniato attorno a questa tematica nella sua duplice valenza: impegno per il cambiamento sociale nel presente e proiezione nell’eterno.
Dalla lettura dei vangeli appare chiaro che neanche gli apostoli comprendevano bene il significato; non c’è, quindi, da stupirsi se nel corso della storia vi siano state ambiguità.
Nel corso della storia
"Difendere Cristo dal Cristianesimo" è il titolo provocatorio di un’intervista del noto religioso, recentemente scomparso, Arturo Paoli. Ne riproponiamo un passaggio:
Dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo, dalla cultura cristiana. Cristo ha predicato la fraternità, la giustizia. A partire dai poveri, dalle vittime dell’ingiustizia. Non ha fatto mai teoria, non ha mai parlato neanche di Dio, si è semplicemente messo accanto ai poveri. Cristo è essenzialmente liberatore, e liberatore dei poveri.
Passando a un autore di tutt’altro genere, Vitaliano Brancati, in Anni perduti, fa notare l’incongruenza di tanti che si dicono cristiani; all’anziano - sia pur bislacco - prof Federico Solco, fa dire:
Amicizia, amico, cuore, cuore e cuore. E Gesù Cristo, quando finiremo d’ingannarlo? Fino a quando, mentre ci diciamo cristiani e dondoliamo con una mano la crocetta che abbiamo al collo, penseremo e diremo ch’è meglio uccidere che perdonare il nostro nemico, ch’è buona previdenza diffidare del proprio vicino, ch’è necessario saltargli al collo non appena fa un gesto sospetto?
Nel corso dei secoli, miliardi di persone, hanno venerato Gesù, ma quanti hanno orientato la loro vita nello sforzo di realizzare il suo messaggio?
A volte Gesù è stato esaltato più per tante tradizioni legate alla cultura del suo tempo, sebbene da lui rifiutate o anche condannate, che per quello che ha effettivamente fatto e insegnato; si è giunti fino a giustificare nel suo nome crimini e ingiustizie.
Preliminarmente, è legittimo chiedersi in che misura l’escatologia attribuita dai sinottici a Gesù sia quella predicata da Lui stesso (ipsissima verba Jesu, le stessissime parole di Gesù) o quella interpretata, alla luce del modo di pensare del tempo, dalle prime comunità cristiane e formulata dai singoli evangelisti. Anche dopo la redazione scritta, che fissava definitivamente l’insegnamento attribuito a Gesù, ciascuno, con un pizzico di fantasia, ha trovato nei vangeli una conferma delle proprie idee, anche ipotizzando orientamenti che Egli aveva condannato.
La prospettiva apocalittica, come insoddisfazione per l’ordinamento presente e l’aspirazione a una società ideale - il regno dei cieli - è stata sempre presente nell’umanità; l’opacizzarsi delle risposte delle fedi religiose ha fatto emergere altre prospettive: il tentativo di realizzare un regno di Dio senza Dio, come in recenti ideologie. Ne è un chiaro esempio quella marxista.
Una comprensibile conseguenza è il ritorcersi di questi tentativi contro la religione stessa.
Alla base vi è forse l’allontanamento dal forte messaggio originario e l’equivoco ingenerato dall’identificazione del concetto di religiosità con i soli aspetti propiziatorio e consolatorio, visti come invito alla rassegnazione passiva e giudicati oppio dei popoli; come se - strumentalizzando le famosissime parole di Francesco d’Assisi: Tanto è il bene che m’aspetto che ogni pena mi è diletto - si dicesse agli sfruttati: Soffrite, soffrite perché godrete poi in paradiso, mentre noi il paradiso ce lo godiamo ora sulle vostre sofferenze.
Di conseguenza, all’amore reciproco come spinta al forte impegno per raggiungere il traguardo, sono spesso subentrati l’odio e la lotta di classe.
I rivoluzionari di professione che volessero avvalorare il loro pensiero con l’insegnamento di Gesù, potrebbero vedere in lui un sovversivo, tirando in ballo alcune espressioni come: Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra: non sono venuto a mettere pace ma spada (Mt 10,34), …chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. ... Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade…». (Lc 22, 36-38)
E ancora: Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti (βιασταὶ, biastài) se ne impadroniscono (Mt 11,12). …da quel tempo è annunciata la buona notizia del regno di Dio, e ciascuno vi entra a forza (καὶ πᾶς εἰς αὐτὴν βιάζεται, kai pas eis autèn biàzetai). (Luca 16:16)
Nell’ingresso trionfale a Gerusalemme potrebbero vedere un tentativo di colpo di mano, proseguito con la cacciata dei venditori dal Tempio e col crescendo di invettive contro farisei e sadducei, fino a provocare l’arresto e la condanna.
Ipotizzano che, dopo il fallimento del tentativo, i discepoli abbiano voluto addolcire il suo insegnamento elaborando quanto poi fissato negli scritti neotestamentari.
Ovviamente, non esiste alcuna prova per avvalorare queste interpretazioni fantasiose, basate sul voler scorgere un incitamento alla violenza nell’invito forte di Gesù a modificare radicalmente il proprio comportamento egoistico per adeguarlo alla ricerca del bene comune.
Idee del genere, anche se non esplicitate, hanno ispirato nel passato organizzazioni violente, sia pure camuffate da buone intenzioni.
I casi sono numerosi; a puro titolo d’esempio potremmo citare, i taboristi, ala del movimento hussita del quindicesimo secolo, o le crociate promosse dalla Chiesa contro gli infedeli e gli eretici.
Proprio a proposito delle crociate, ci sembra particolarmente significativo l’incitamento di un santo molto stimato e venerato, Bernardo di Chiaravalle; a esempio, nel Liber ad milites Templi, De laude novae militiae (redatto intorno al 1130) egli scriveva:
… i soldati di Cristo, invece, combattono con decisione le battaglie del Signore, non temendo né il peccato dell'omicidio del nemico, né il pericolo della propria morte; qualunque genere di morte per Cristo, o inferta o subita, non costituisce crimine, ma aumenta la gloria. Cristo accetta volentieri la morte del nemico come vendetta e si offre ancora più volentieri al soldato come consolazione. Quando il soldato … uccide il malfattore, non è un omicida, ma, per così dire, un malicida, vendicatore di Cristo contro quelli che fanno il male ed è considerato difensore dei cristiani. … Il cristiano si gloria della morte del pagano, perché Cristo è glorificato. (cum occidit malefactorem, non homicida, sed, ut ita dixerim, malicida, et plane Christi vindex in his qui male agunt, et defensor Christianorum reputatur. … In morte pagani christianus gloriatur, quia Christus glorificatur.)
Era questo l’insegnamento di Gesù?
Sul piano esclusivamente umano, il dettaglio, non certo marginale, che allontana questi movimenti dal messaggio evangelico è la via di realizzazione del regno dei cieli che Gesù indica, senza ambiguità, nell’attuazione della legge dell’amore attraverso l’impegno personale condotto, se necessario, fino al sacrificio e con l’esclusione di qualsiasi forma di violenza esercitata sugli altri.
* * *
In tempi più recenti, l’attenuarsi della lotta per la sopravvivenza ha reso più palese l’insoddisfazione per una vita condotta o percepita come priva di senso; gli scrittori fanno leva su particolari sfaccettature, teorizzando la nausea, la noia, l’assurdo o altre ancora.
Alcuni si limitano alla pura espressione del disagio, altri intravedono prospettive di superamento, altri ancora si impegnano con sacrificio personale nella lotta per il raggiungimento di quello che Cristo ha indicato come regno dei cieli, anche se non sempre la motivazione è connessa col messaggio evangelico.
A titolo puramente esemplificativo, vorremmo accennare a due figure che ci sembrano particolarmente significative: Simone Weil e Albert Camus.
Nella prima metà dello scorso secolo, una fragile e ribelle ragazza francese, nata in una famiglia ebrea, è affascinata dalla figura di Cristo e dal suo messaggio, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione; rifiuta l’organizzazione sociale di fatto esistente e - incurante delle precarie condizioni di salute - decide di dedicare la sua vita, fino ad autodistruggersi, alla costruzione di un mondo più giusto, orientato verso la libertà e la solidarietà.
Quest’inquieta pensatrice giunge al cristianesimo attraverso il marxismo; coglie in esso l’aspirazione verso una società più giusta, ma vuole tendervi con un radicale impegno personale condotto fino al sacrificio di sé. Considera oppio del popolo - riprendendo la famosa espressione di Marx - oltre che la religione formale, la stereotipata retorica della rivoluzione.
Non si limita a teorizzare: s’impegna con la propria vita a sostituire sempre più nel mondo la non-violenza efficace alla violenza.
Considera tutti gli esseri umani, specialmente i più deboli e indifesi, come oggetto di cure e d’amore, non come cose o semplici strumenti da utilizzare per raggiungere scopi egoistici.
Questo sforzo spasmodico, spinto fino all’eroismo, le fa prendere atto che ancor prima era stato Cristo a portare il messaggio di un mondo più giusto e di lui s’innamora, tanto da giungere a un’unione mistica: Cristo è sceso e mi ha presa.
Contrariamente alla concezione consacrata dalla tradizione cattolica, nei suoi scritti non contrappone il naturale al sovrannaturale; riflessioni politiche e sociali s'intrecciano senza soluzione di continuità con quelle religiose e mistiche come facenti parte di un’unica realtà.
Non si rassegna all’accettazione passiva dell’ipse dixit.
Il bisogno di comprendere le fa percepire, come lei stessa scrive, fin quasi dalle origini un malessere dell’individuo nel cristianesimo, in particolare un malessere dell’intelligenza.
Vede nella riconciliazione tra intelligenza e cristianesimo una delle condizioni essenziali per salvare le anime occidentali dal nulla che le sta logorando.
Per la Weil credere in Dio non significa professare dottrine su cose lontane, tantomeno circoscriverlo in riti formali, ma è l’espressione di un retto pensiero sul mondo e la retta azione su di esso. Non significa credere in qualcuno che sta da qualche parte, ma agire rettamente all’interno del mondo; l’amore per Dio si traduce nell’amore per il mondo, inteso nel modo giusto.
Non si tratta di un contrasto con le espressioni attribuite a Gesù nei vangeli. Nel linguaggio della Weil, col termine mondo si indica la realtà di fatto esistente che non può essere passivamente accettata ma, più che esecrata, deve essere modificata: è la massa che la piccola quantità di lievito deve fermentare.
È il superamento della dicotomia consacrata da una certa tradizione religiosa: se ami Dio devi odiare il mondo.
Si tratta della dimensione nuova che caratterizza la spiritualità attuale, da lei brillantemente esplicitata e testimoniata.
Sul piano speculativo, afferma che l’oggetto della sua ricerca non è il soprannaturale, che esula dalle capacità di comprensione della mente umana e per definizione non si può ricercare, è questo mondo; il soprannaturale è come una chiave di lettura del naturale, per riflettere adeguatamente sui fenomeni constatabili e sulla logica che li concatena.
Il concetto richiama un’analogia: la luce non si vede, ma permette di vedere gli oggetti; il sole non può essere guardato perché abbaglia, ma la sua luce permette di vedere distintamente le cose.
Sebbene si sia ancora agli inizi, oggi si cominciano a conoscere le leggi che regolano la psiche umana.
Ne segue che tanti concetti, prima calati dall’alto invocando il soprannaturale, cominciano a essere letti come evoluzioni naturali; da qui l’esigenza di voler capire usando la propria intelligenza.
Questo nuovo modo di vedere contribuisce a far vivere in un modo diverso la spiritualità personale.
Sono tanti che vorrebbero dare un apporto in tal senso.
Simone Weil considera Dio Padre di tutti gli uomini, tutti chiamati alla salvezza:
I figli di Dio non devono avere quaggiù altra patria che l’universo intero. Con la totalità delle creature ragionevoli che ha contenuto e contiene e conterrà, il nostro amore deve avere la stessa estensione attraverso tutto lo spazio. Ogni qual volta un uomo ha invocato con cuore puro Osiride, Dioniso, Krishna, Budda, il Tao ecc. il Figlio di Dio ha risposto inviandogli lo spirito Santo e lo Spirito Santo ha agito sulla sua anima, non inducendolo ad abbandonare la sua tradizione religiosa, ma dandogli luce e nei migliori dei casi la pienezza della luce all’interno di tale tradizione.
E ancora, in Attesa di Dio, osserva:
Il cristianesimo deve contenere in sé tutte le vocazioni senza eccezione, perché è cattolico. [...] tradirei la verità, cioè quell'aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. [...] C'è un ostacolo assolutamente insormontabile all'incarnazione del cristianesimo, ed è l'uso di due brevi parole: “anathema sit”. [...] Mi schiero al fianco di tutte le cose che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, ricettacolo universale.
Questa donna tanto unita a Cristo, sceglie di non entrare nella Chiesa a causa del disagio intellettivo che comporta l’abbracciare la dottrina cattolica, così come - in una certa tradizione - si è configurata:
Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia, o più precisamente lo sarebbe senza la distanza che la mia imperfezione pone tra essa e me.
Rifiuta il battesimo allo stesso modo come rifiuta lo stalinismo e il trotskismo perché non vuole aderire a un’istituzione che ricalchi ideologie totalitarie.
Nei suoi ultimi testi, scrive: Credo in Dio, nella Trinità, nell’Incarnazione, nella Redenzione, nell’Eucaristia, negli insegnamenti del Vangelo.
Nello stesso tempo: Non riconosco alla Chiesa nessun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero.
Come giudicare queste posizioni di Simone Weil?
Una cosa è certa: rispecchiano gli orientamenti della spiritualità dell’ultimo secolo e traducono il disagio vissuto da molti intellettuali e non solo.
Sono in tanti i credenti che pensano allo stesso modo, si rifiutano di basare la loro fede sul principio di autorità e non riconoscono più alla Chiesa un potere sulla loro intelligenza, pur seguendola quando si tratta di testimoniare la carità o anche nella celebrazione della liturgia.
Non trovando un’adeguata risonanza nei modelli tradizionali, sia a livello di pensiero, sia nel modo di tradurre nella vita concreta i loro bisogni interiori, preferiscono seguire una loro via: privilegiare il principio di verità su quello di autorità.
Le menti più aperte e illuminate hanno dimostrato di capire queste istanze.
Non c’è da stupirsi se Papa Paolo VI abbia visto in lei una delle figure che hanno influito maggiormente nella sua vita; giungerà a considerarla meritevole di essere proclamata santa se non ci fosse l’ostacolo del suo mancato approdo al battesimo.
Ovviamente, non ci si potrebbe aspettare altrettanta condivisione nell’ala ultraconservatrice cattolica.
I tradizionalisti considerano irrilevante il suo sforzo per seguire l’insegnamento di Cristo; per loro il criterio di giudizio è l’aderenza alle dottrine formulate nei vari periodi passati.
Le muovono pesanti critiche accusandola di gnosticismo e di marcionisno; l’avvicinano anche all’eresia dei catari, oltre che tacciarla di anarchismo e - sebbene ebrea - di antisemitismo!
Appare stridente il contrasto con l’interesse e l’ammirazione dimostrata da altri considerati miscredenti.
A conferma di questo, soffermiamoci per un momento sul pensiero del suo amico-innamorato postumo: Albert Camus.
Questo scrittore, che ha avuto un certo peso nel pensiero del ’900, ha manifestato un’adesione entusiastica alle idee e alla figura di Simone Weil, al punto da definirla l’unico grande spirito del nostro tempo e da tenere la sua foto sullo scrittoio; ne ha curato la pubblicazione postuma degli ultimi scritti e ha inserito in una collana da lui diretta le sue opere.
Come tanti altri, manifesta il profondo disagio di vivere; lo traduce parlando di assurdo dell’esistenza umana, ma nello stesso tempo intravede un riscatto nella rivolta attraverso la solidarietà e l’impegno sociale.
Sono le due parole-chiave del suo pensiero.
Teorizza l’assurdo principalmente nel romanzo Lo Straniero e nel saggio Il Mito di Sisifo, ma non considera questa visione della vita fatale, crogiolandosi in essa; punta sulla rivolta e nel romanzo La Peste fa scoprire al Dottor Rieux e ai suoi collaboratori il senso da dare alla loro esistenza nella solidarietà manifestata attraverso l’aiuto ai sofferenti.
In che cosa - sostanzialmente - si discosta dal messaggio di Cristo?
Il pensiero corre spontaneo ad altri orientamenti, timidamente affiorati nel corso dei secoli in forme diverse e più recentemente portati avanti come cristianesimo anarchico: rifiuto di qualsiasi autorità coattiva, di organizzazioni, di dogmi e di riti considerai superflui. Solo fede in Dio e adesione alla legge naturale e all’insegnamento di Gesù, espresso soprattutto nel sublime Discorso della Montagna (Beatitudini).
Nel primo novecento, questi orientamenti sono stati particolarmente attivi in Russia, dove hanno trovato il loro riferimento principale in Lev Tostoj, anche se egli ha sempre rifiutato l’appellativo di anarchico, per evitare la confusione con analoghi movimenti a carattere violento.
Scrive infatti:
Mi considerano anarchico, ma io non sono anarchico, sono cristiano. Il mio anarchismo è solo l'applicazione del cristianesimo ai rapporti fra gli uomini. (Diari, 24 agosto 1906) |
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Precedentemente, in Il regno di Dio è in voi (1893) aveva scritto:
Il cristianesimo nel suo vero significato distrugge lo stato. Esso fu compreso così fin dal principio ed è per ciò che il Cristo fu crocifisso. È stato compreso così in ogni tempo dagli uomini non legati dalla necessità di giustificare lo stato cristiano. Solo quando i capi dello stato accettarono il cristianesimo nominale esterno, si cominciarono ad inventare le teorie sottili secondo le quali il cristianesimo si può conciliare con lo stato.
Ma, per ogni uomo sincero del tempo nostro, non può non essere evidente che il vero cristianesimo - la dottrina della rassegnazione, del perdono, dell'amore - non può conciliarsi con lo stato, col suo dispotismo, con la sua violenza, con la sua giustizia crudele e con le sue guerre. Non solo il vero cristianesimo non permette di riconoscere lo stato, ma ne distrugge i principî stessi.
Più tardi Nikolaj Berdjaev, esule russo in Francia, scriverà
Uno stato perfetto è uno stato dove non c'è potere al di sopra dell'uomo, in altre parole, l'anarchia. Il Regno di Dio è la libertà e l'assenza di tale potere... il Regno di Dio è l'anarchia, (in Schiavitù e libertà dell'uomo 1939). |
Naturalmente idee del genere non potevano incontrare il favore del potere, sia civile che religioso. Lo stesso Tolstoj nel 1901 fu scomunicato dal Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa e furono solo la sua fama e la sua popolarità a salvarlo dalla condanna alla segregazione in un monastero.
Questi modi di cercare il Regno dei Cieli, anche se destano perplessità, potrebbero suggerire qualche riflessione o sono da condannare senza appello?
Mentre sono intento agli ultimi ritocchi di questo scritto, le agenzie di stampa comunicano la notizia della morte di Gino Strada, il medico fondatore dell’organizzazione umanitaria Emergency, dichiaratamente ateo.
Non conosco molto della sua intimità, ma due domande inquietanti sorgono spontanee:
· È stato lui che nella vita ha realizzato più fedelmente il messaggio di Cristo o i tanti fedeli che frequentano assiduamente i riti religiosi o tanti prelati che dettano leggi dall’alto delle loro cattedre?
· Pur avendo avuto un’educazione e una militanza cattolica, cosa l’ha spinto a girare le spalle alle istituzioni per seguire, pur senza dichiararlo, l’insegnamento di Cristo?
Non si tratta di un caso isolato; il citato Umberto Eco, ad esempio, pur avendo avuto fino al periodo universitario una parte attiva nell’Azione Cattolica, con incarichi anche a livello nazionale, se ne allontanò – come diversi altri, fra i quali Carlo Carretto – per contrasti di vedute col Presidente generale del tempo, il medico conservatore Luigi Gedda; successivamente, come già detto, Eco abbandonò anche la fede.
Altro motivo di riflessione potrebbe essere la constatazione della rapida popolarità raggiunta dal movimento New Age (Nuova Era) negli ultimi decenni.
Come risaputo, sotto questo nome è inglobato una vasto orientamento che comprende le numerose correnti spirituali, psicologiche e sociali alternative sorte in concomitanza delle contestazioni, inizialmente studentesche, a partire dal 1968 e tuttora fiorenti.
In campo religioso, l’insoddisfazione per gli schemi tradizionali dell’Occidente cristiano spinge a rivolgere lo sguardo verso tecniche, riti, usi religiosi e pensieri delle filosofie orientali, anche se il legame con essi appare piuttosto superficiale.
Elemento comune a questi movimenti è il bisogno di spiritualità e la connotazione apocalittica: delusione per l’attuale ordinamento sociale e prospettiva di un radicale cambiamento, da realizzare mediante l’elevazione spirituale del singolo individuo, attuata con l’apporto di entità superiori.
Partendo dalla connessione con discutibili concetti astrologici e dal presupposto che l'intuizione possa essere un mezzo di conoscenza alternativo, spesso più efficace della razionalità, i promotori avanzano proposte a volte molto discutibili, sebbene non in modo dogmatico. Lasciano al singolo individuo la libertà di credere, secondo il proprio discernimento e le proprie inclinazioni spirituali: ogni individuo, essendo di origine divina, è chiamato a costruirsi un proprio percorso spirituale per risvegliare in sé il bisogno di ritornare alle origini.
Fra le opinioni presenti nelle varie correnti, vi è il rifiuto dei dogmi e dell’intolleranza verso le altre religioni.
Sostengono, inoltre, che sulla terra ogni individuo abbia uno scopo e una lezione da imparare, prima fra tutte l'amore.
Considerano la morte non come la fine di tutto ma come il passaggio a una diversa dimensione estremamente complessa che la mente umana non è in grado di rappresentarsi in modo adeguato e in cui non siano previste punizioni.
Pensano che le coincidenze non esistano e che tutto ciò che accade abbia uno scopo e un significato spirituale.
Da un approccio più ravvicinato col pensiero delle varie correnti, non è difficile individuare la chiave del successo in molti punti di aggancio con orientamenti che affiorano nelle esigenze della spiritualità moderna: la scarsa attenzione alla sensibilità attuale dimostrata dalla fede ufficiale, porta facilmente a ripiegare su altre proposte, sebbene fantasiose e a volte - a parere di molti - al limite del ridicolo.
Oggi si parla sempre più spesso di spiritualità laica; il filosofo norvergese Arne Næss (1912 – Oslo - 2009) ha introdotto il termine ecosofia, ripreso da tanti altri, fra i quali l’autorevole religioso cattolico Raimon Panikkar (Barcellona 1918 – Tavertet 2010) ma frange della Chiesa, più preoccupate di mantenere l’egemonia che di analizzare la validità dei contenuti e le convergenze, preferiscono eludere qualsiasi dialogo e restare - di fatto - ancorati all’anacronistico principio Extra Ecclesiam nulla salus.
Alla luce di queste considerazioni, un osservatore sereno è portato a chiedersi: perché l’orientamento religioso non prende atto delle esigenze e dei fermenti di spiritualità e di bene che caratterizzano il mondo in cui viviamo e non cerca di sintonizzarsi maggiormente con la tendenza attuale, anziché attardarsi su motivazioni alle quali oggi si è meno sensibili?
Un teologo vivente ha osservato che o si rifonda totalmente la modalità di pensare il rapporto Dio-mondo e quindi il ruolo della Chiesa, o questo nostro Occidente sarà destinato ad andarsene per una strada inevitabilmente diversa rispetto a quella istituzionale della Chiesa cattolica. La frattura fra gli uomini e la Chiesa sarà destinata a diventare sempre più grande. (Vito Mancuso)
Si deplora l’affievolimento della fede, ma si dimentica che fede non è una pura credenza formale o deferenza alle autorità religiose; è lavorare per il Regno dei Cieli.
Forse, in questo ci si cura poco di cogliere i segni dei tempi!
Penso sia legittimo chiedersi se in tanti irrigidimenti non influisca una larvata tendenza al potere, insita in ogni essere umano e dalla quale le gerarchie e l’intera classe clericale non sono - forse - del tutto immuni.
Certamente l’impostazione autoritaria tradizionale fa il gioco del potere e permette di mantenersi saldi in arcione; poco importa se un messaggio religioso inadeguato ingeneri fatalmente perplessità che investono l’accettazione globale della religione stessa!
* * *
Ampliando il campo e riprendendo concetti espressi in precedenza, le crisi religiose di tante persone, oggi, oltre a quanto appena accennato, sono collegate a due temi di grande rilievo:
· L'idea di un Dio personale, immaginato a somiglianza dell'uomo: un Dio antropomorfizzato, con sentimenti e modi di pensare tipicamente umani, da cui si attendono interventi rivolti alla persona e a cui bisogna rispondere delle proprie azioni.
· Il concetto di eternità come prosecuzione infinita del tempo, ignorando che l'eternità non ha successioni né tempo.
Una voce che dà corpo a queste perplessità è quella del già citato Einstein, lo scienziato più conosciuto dello scorso secolo:
Non posso concepire un Dio che premia e punisce le sue creature, o che possiede una volontà del tipo che noi riconosciamo in noi stessi. Un individuo che sopravvivesse alla propria morte fisica è totalmente lontano dalla mia comprensione, né vorrei che fosse altrimenti; tali nozioni valgono per le paure o per l'assurdo egoismo di anime deboli. A me basta il mistero dell'eternità della vita e la vaga idea della meravigliosa struttura della realtà, insieme allo sforzo individuale per comprendere un frammento, anche il più piccino, della ragione che si manifesta nella natura.
Lo scienziato sente il bisogno di asserire:
... in questo senso, e solo in questo, sono un uomo profondamente religioso.
Precisa, poi, il senso a cui si riferisce la sua religiosità, forse influenzato dalle teorie di un altro pensatore ebreo, Spinoza, considerato eretico dai suoi correligionari:
Comune a tutti questi tipi di religione è il carattere antropomorfico del loro concetto di Dio. Solo individui di eccezionale talento e comunità eccezionalmente avanzate a livello intellettuale, come regola generale, superano in ogni senso questo livello. Tuttavia c'è un terzo stato di esperienza religiosa che li riguarda tutti, sebbene solo raramente si trovi nella sua forma pura, e che chiameremo sentimento religioso cosmico. È molto difficile spiegare questo sentimento a chi ne sia totalmente privo, specialmente perché non c'è alcun concetto antropomorfico di Dio che vi corrisponde. L’individuo percepisce l'inutilità dei desideri e degli scopi umani e la sublimità e l'ordine meraviglioso che si manifestano in natura e nel mondo del pensiero. Considera l'esistenza individuale come una sorta di prigione e vuole indagare l'universo come un tutto unico pieno di significato.
....
Perciò è proprio fra gli eretici di ogni epoca che troviamo uomini carichi del più alto sentimento religioso e che erano spesso visti dai loro contemporanei come atei, ma talvolta anche come santi.
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Come può un sentimento religioso cosmico venir comunicato da una persona all'altra, se non può generare nessuna nozione definita di Dio e nessuna teologia? Secondo me, la funzione più importante dell'arte e della scienza è proprio quella di risvegliare questo sentimento e tenerlo vivo in quelli che sono in grado di sentirlo. Giungiamo così a un concetto della relazione della scienza con la religione molto diverso da quello abituale.
...
Un contemporaneo ha detto, non ingiustamente, che in questa nostra epoca materialista i seri scienziati sono le uniche persone profondamente religiose.
Solo chi ha dedicato la propria vita a simili scopi può avere una vivida immagine di cosa abbia ispirato quegli uomini e dato loro la forza di restare fedeli al loro proposito, malgrado gli innumerevoli fallimenti.
Anche a non volerli condividere in tutto, sono concetti che dovrebbero portare a riflettere.
Altri, pur pensando in modo simile, si professano atei, convinti di non potere trovare posto nell'ambito delle fedi ufficiali.
Si rivolge a loro in una lirica tanto profonda David Maria Turoldo, la coscienza inquieta della Chiesa, con cui mi son trovato in piena sintonia:
Fratello ateo nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere e là
dove la parola muore
abbia fine il nostro cammino.
Spesso il credente, saldamente arroccato nelle proprie certezze, guarda con sufficienza chi non condivide le proprie convinzioni; lo considera un empio, solo perché non prende parte a riti liturgici, considerati unica vera espressione di fede.
Per la verità, sarebbe difficile trasmettere tanti concetti, che superano la nostra capacità di comprensione, senza fare riferimento a immagini familiari e accessibili a tutti.
Le difficoltà iniziano quando queste immagini si assolutizzano e si trasformano in verità alle quali s'impone di credere.
Come abbiamo ripetutamente osservato, questa perplessità è collegata a una considerazione più ampia. Il messaggio di Gesù di Nazareth, per esigenze di intellegibilità, nella sua formulazione concreta, è stato adattato al modo di pensare di coloro che in quel tempo lo recepivano.
Nella sua diffusione, poi, ha risentito della cultura ellenistica.
Se, con l’evoluzione del pensiero, le esigenze cambiano, non sarebbe opportuno seguire le indicazioni dell’ultimo Concilio e di papi, lasciando aperto il problema e prendendo in considerazione modalità espressive più consone al modo di pensare corrente, analogamente a quanto è avvenuto nei primi secoli?
Non si tratta assolutamente di alterare il messaggio di Cristo, ma di non sacralizzare la lettera con la quale in altri tempi è stato formulato.
Sarebbe fuor di luogo riflettere sull’esortazione di Paolo di Tarso: … la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita? (2 Cor 3,6)
3. E se si guardasse ancora alle origini?
Gesù di Nazareth, nel suo messaggio - come da me recepito - pone in risalto l’aspetto sociale: invita costantemente a lavorare per la costruzione del regno dei cieli, un ideale di vita e di società nella quale i poveri in spirito, non essendo legati al possesso, troveranno il loro posto; gli afflitti saranno consolati perché verranno meno i motivi d'afflizione; i miti erediteranno la terra perché troveranno il loro ambiente; quelli che hanno fame e sete di giustizia saranno saziati, perché il loro desiderio sarà realizzato; ...
Nel cammino verso questo traguardo, ciascuno è chiamato a dare il suo apporto affinché la sua vita abbia un senso: spingersi oltre il proprio ciclo biologico per aprirsi a orizzonti più vasti e contribuire al lento percorso che segna la storia dell'uomo.
Non sarà il singolo a modificare l’orientamento sociale, ma, come nella favola del colibrì che porta la sua goccia d’acqua per spegnere l’incendio del bosco, ciascuno è chiamato a fare la sua parte.
Il compito di ciascuno consiste nell'agevolare la propria evoluzione interiore, superare l'egocentrismo infantile e avviarsi alla vita matura, in modo da creare le premesse per contribuire al raggiungimento della meta.
È in quest'armoniosa convergenza d'ideali, sul piano individuale e su quello dell’evoluzione sociale, che potremmo intuire il vero messaggio di Cristo e il traguardo da lui costantemente additato.
Le regole e le imposizioni costituiscono solo un necessario ripiego, fin quando l'uomo non realizzerà veramente se stesso intuendo l’ordine supremo in cui immergersi.
In conclusione, non ci resta che ripetere ancora: una certa tradizione religiosa, tendente - comprensibilmente! - a imbrigliare in una logica umana misteriose realtà che ci trascendono, ha isolato questo ripiego ponendo l'accento su una ricompensa individuale in una vita ultraterrena, immaginata come prosecuzione temporale.
Lo studioso di scienze umane deve necessariamente fermarsi a quello che riguarda l’agire dell’uomo nell’ambito del suo ciclo biologico.
Tuttavia, penso sia legittimo chiedersi, oggi, se non sia preferibile un ritorno al sereno messaggio evangelico verso cui convergano, seguendo le loro strade, teologi e seri scienziati.
Uno degli ostacoli è, forse, costituito dai cosiddetti credenti che hanno ancora bisogno di appigliarsi a certezze concrete e continuano a preferire insegnamenti spacciati come certi e regole rigide, anche se spesso cavillose, non meno di quanto avveniva ai tempi di Cristo.
Si sentirebbero, forse, contrariati dall'intervista rilasciata da Papa Francesco:
Sì, in questo cercare e trovare Dio in tutte le cose resta sempre una zona di incertezza. Deve esserci. Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale.
(L'Osservatore Romano, 21/09/2013)
Concetti poi ribaditi, il 10 aprile 2014 nell'invito - rivolto alla comunità della Pontificia Università Gregoriana di Roma - a superare tante barriere e a mitigare tante certezze: ... i nostri pensieri devono avere sempre qualcosa di incompiuto.
Procedendo nella stessa direzione, il citato teologo contemporaneo, Albert Nolan, precisa:
L’ossessione della certezza assoluta è un’altra forma di schiavitù. È un modo di trovare sicurezza senza dover riporre tutta la fiducia in Dio. Fondamentalmente non è diversa dall’aggrapparsi alle proprietà per sentirsi sicuri.
Da parte mia, giunto alla fine di questo paziente lavoro, non mi resta che seguire l'invito autorevole del Papa a lasciare nel mio pensiero qualcosa d'incompiuto; incompiutezza da intendersi come possibile apertura a una molteplicità di prospettive.
Ho solo annaspato, tentato di tradurre, alla luce del mio modo di essere e delle mie esigenze, la mia percezione del messaggio di Gesù di Nazareth e ho voluto dar corpo alle perplessità che sorgono spontanee in chi vorrebbe uscir fuori dal cerchio che gli hanno disegnato attorno.
Non appartengo a teologi, tanto meno a seri scienziati e non intendo avanzare ipotesi, proporre spiegazioni, meno ancora offrire certezze.
Affido al benevolo e paziente lettore - se lo vorrà - il non facile compito di proseguire, leggendo fra le righe di quanto ho tratteggiato, la ricerca di spunti di riflessione e di elementi utili per intuire le proprie risposte.
Quanto a me, vorrei lasciare aperto il problema e limitarmi a guardare con timorosa riverenza il mistero che ci avvolge e con lo stupore di un bimbo quest'universo d'incanto, memore dell’intuizione attribuita a un padre della Chiesa, Gregorio di Nissa:
I concetti creano gli idoli di Dio, solo lo stupore coglie qualcosa!