Parte Prima - Considerazioni preliminari

Parte Prima
Considerazioni preliminari

 

 

Il tempo che passa non muore,

ritorna solo nell’eternità.

 

(Urszula Zybura)

 



 

 

 

 

 

Uno sguardo

sulle lontane origini del mondo,

e sulle intuizioni che hanno portato

allo strutturarsi delle fedi religiose.

 

Riflessioni sulla capacità di comprensione

della mente umana

e sulla formazione delle ideologie

e delle prassi di vita.

 

 

 

L’universo si evolve, emerge la vita,

fino a giungere all’uomo

con la sua capacità di cogliere qualcosa

di quanto esiste fuori di lui

e di tradurre in immagini i pochi elementi raccolti.

 

Affiora in lui il bisogno del sacro,

tradotto anch’esso in immagini

e imbrigliato nella minuscola logica umana.

 

Fino a qual punto immagini costruite dall’uomo

possono riflettere il mondo reale

e - ancor più - realtà trascendenti?

 

È la domanda iniziale del nostro percorso.



 

1.    L’universo si evolve

 

Il big-bang: un bagliore infinito, un fragore immenso che da miliardi di anni risuona ancora nell’universo; miriadi di corpi sono lanciati a creare lo spazio, guidati da un’Intelligenza Suprema, misteriosa e ineffabile verso una meta a lei sola conosciuta.

 

Il tempo creato trascorre e la natura prosegue il suo corso lungo la via tracciata dall’Intelligenza Suprema.

 

Minuscole particelle, come in un bisogno di stabilire nuove relazioni, si aggregano per formare piccoli mondi, in sintonia con l’ambiente che li circonda; mondi capaci di generare realtà a loro simili e di seguire un loro destino, fino a confondersi nuovamente con la materia dalla quale si erano differenziate: la vita si apre un varco nel creato, si organizza in architetture grandiose, esplode in tutto il suo splendore, ricopre e popola le acque e le terre.

 

Le nuove realtà silenziosamente si moltiplicano e si evolvono in strutture sempre più complesse, si rendono sempre più autonome dall’ambiente che le circonda; progressivamente sviluppano la capacità di interagire selettivamente con esso.

 

Alcune forme progrediscono maggiormente nella capacità di interagire con la materia dalla quale erano emerse e di rappresentarsi, con modi differenti, al loro interno la realtà che li circonda: si fa strada la capacità di conoscenza, finalizzata inizialmente alla propria sopravvivenza e al proprio benessere, con la spinta latente a espandersi e stabilire relazioni più vaste.

 

Fin dal suo primo apparire, la vita è regolata, in tutte le sue manifestazioni, da leggi sapienti.

Prima fra tutte, la priorità dell'interesse per la specie su quello per il singolo individuo.

L’esistenza effimera del singolo organismo porge il testimone all’organismo generato, nel lento cammino verso una sempre maggiore autonomia dalla materia dalla quale proviene.

 

L’homo silvestris lentamente evolve proseguendo il suo cammino verso l’homo sapiens; è in grado di operare attraverso simboli e di stabilire i primi nessi tra causa ed effetto, di localizzare le esperienze passate nel tempo e nello spazio e di trasmetterle alle generazioni future.

 

Il singolo individuo si perpetuerà nelle generazioni che lo seguiranno, non soltanto attraverso le caratteristiche genetiche, ma trasmettendo quanto le esperienze della vita gli avranno insegnato e quanto l’elaborazione mentale gli avrà fatto raggiungere.

 

Il potere di astrazione e l’ampliamento del patrimonio mentale porta con sé una sempre maggiore capacità di gestire le esperienze, di stabilire connessioni, di anticipare il futuro e di interrogarsi sul passato.

Con l’avvento delle capacità cognitive, il minuscolo homo sapiens, si guarda indietro, nel tentativo di scoprire la sua origine, le realtà che lo sovrastano e il destino al quale si avvia.

 

In questo sforzo, tenta di imbrigliare nella sua logica limitata realtà che lo trascendono, dando a esse la parvenza della propria realtà, pensandole a propria immagine e a immagine delle proprie strutture sociali.

Costruirà paradigmi di riferimento, come contenitori ai quali si aggrapperà considerandoli fonti di verità assoluta; l’accumulo delle nuove conoscenze farà debordare e il vecchio paradigma salta, determinando rivoluzioni culturali che si faranno strada, malgrado le persistenti remore oscure, spesso paludate di nobili intenti.

Le spinte di pochi, che intuiranno nuovi orizzonti, saranno ostacolate dai molti che si attarderanno nelle vecchie posizioni e tenderanno a contrastare gli eventi, anziché assecondarli, col rischio di restare al di fuori della storia.



 

2.    L’emergere del sacro

 

La capacità di rievocare il passato, porta l’uomo a rifugiarsi nel ricordo di periodi felici trascorsi per rivivere, in momenti di difficoltà, una parvenza di piacere.

 

Impara anche a costruire situazioni immaginarie utilizzando frammenti di esperienze reali: la fantasia si fa strada come via parallela alla realtà, quando questa diventa penosa.

Impara a costruirsi un mondo fittizio che possa alleviare i disagi del mondo reale, pur sapendo che un muro invalicabile separa i due mondi.

 

Il lavorio della mente prosegue nel sonno, pausa in cui la vita reale è silente.

Al risveglio con stupore costata che le scene, apparse vere nel lavoro onirico, non possono essere realmente accadute; eppure, s’impongono a lui, a differenza dei ricordi e delle fantasie.

 

Pensa alla possibile esistenza di una realtà misteriosa e inquietante, diversa da quella da lui osservata e toccata con mano nella vita quotidiana.

Realtà che collega con altre, come la grandiosità delle forze della natura che sfuggono a ogni regola da lui conosciuta e di fronte alle quali si sente impotente.

 

Intuisce l’esistenza di qualcosa che, pur non cadendo sotto la sua esperienza diretta, può avere un’influenza sulla sua vita.

Sente il bisogno di darle un volto, crearsi delle spiegazioni sul suo agire e di mantenere un rapporto con essa.

Si fa strada l’idea del sacro come qualcosa di parallelo alla vita reale, da tenere a riverente distanza, ma nello stesso tempo da ingraziarsi per non subirne influenze dannose.

 

L’apparato conoscitivo, parzialmente ereditato dalle specie inferiori, è programmato per rispondere alle esigenze della sua sopravvivenza; volendosi rappresentare ciò che va oltre, è costretto a ricorrere a immagini familiari, tratte dall’esperienza quotidiana e dalle elaborazioni che si evolveranno e si tramanderanno nel corso dei millenni.

 

Inizia a convivere con queste realtà impalpabili; a esse attribuisce quello che la sua giovane mente non riesce a spiegare, ma è angosciato al pensiero di trovarsi in balia di forze oscure e incontrollabili.

Vuole, almeno, ingraziarsele, tentare il controllo alleandosi con la potenza superiore che le governa.

 

Il tempo trascorre, l’uomo comincia ad addomesticare alcune specie animali e a coltivare piante utili per il suo sostentamento; non è più strettamente legato, come prima, alla caccia e alla raccolta occasionale per procurarsi il cibo ogni giorno.

L’organizzazione degli allevamenti e delle colture rende necessaria la collaborazione del gruppo.

Si rende, anche, necessaria la gerarchizzazione dei ruoli e la creazione di strutture sociali.

Alle esigenze imposte dalla vita, spesso si sovrappone l’intraprendenza dei più forti per il dominio sugli altri, aprendo la strada alla sopraffazione e alla lotta.

 

La possibilità di una produzione continua di cibo e del suo accumulo allenta l’assillo quotidiano, mentre il maggior contatto con gli altri membri del gruppo lo porta a dare corpo alle ansie e a confrontarle con quelle dei suoi simili.

Le prime forme d’urbanizzazione, le primitive espressioni grafiche e poi l’evoluzione della scrittura agevoleranno, nel corso dei millenni, i processi d’astrazione e con essi le elaborazioni collettive e l’intuizione di realtà che vanno oltre le esperienze sensibili.

 

Di fronte a realtà che lo trascendono, l’uomo tenta di crearsi un’immagine, partendo dalle esperienze quotidiane nei suoi rapporti con la natura e con i suoi simili.

 

Questa esigenza lo porta a personificare e divinizzare i fenomeni naturali; a immaginare divinità capricciose, come capricciosa appare la natura nel suo manifestarsi. Costruisce una gerarchia divina sul modello delle gerarchie umane, includendo intrighi, prepotenze, crudeltà, odi, ambizioni, brama di potere sugli altri.

Si prostra in adorazione strisciando davanti alle divinità, da lui stesso costruite, non meno di quanto avviene nell’ambiente in cui vive, dove il debole deve strisciare davanti al forte per non essere sopraffatto; spera almeno in una risposta benevola che porti a mitigare i capricci divini.

 

Le divinità costruite sono buone o cattive, a somiglianza degli uomini, spietatamente in lotta fra loro; attribuisce a esse un’influenza sulle vicende della terra.

 

Si delinea il bisogno di divinità che rassicurino e proteggano l'uomo dai pericoli costantemente incombenti.

Ogni gruppo si costruisce una propria divinità, alla quale attribuisce una protezione circoscritta ai suoi adoratori.

 

Alla propria divinità, l’uomo attribuisce i successi e le sconfitte. Si aspetta da essa e dai suoi interventi quanto lui non riesce a fare con le proprie forze e se la vuole ingraziare; attende la soluzione dei problemi da fuori, da qualcuno che sta da qualche parte.

È il genere di aspettativa che ha permeato la tradizione religiosa ebraica e da essa passerà al cristianesimo.



 

Il sacro, la sacralizzazione e la ritualizzazione

 

Il sentimento di oscura potenza e di irrazionale terrore ispirato da una realtà invisibile, maestosa e incombente attira l’uomo, ma nello stesso tempo gli incute terrore, come tutto quello che sfugge al suo controllo. Spinto dal bisogno, insito in ogni essere umano, di superare l’angoscia, sviluppa il concetto di sacro, come qualcosa da cui farsi proteggere e nello stesso tempo da cui tenersi a timorosa e riverente distanza.

Tenta di dare regole a ciò che sfugge a ogni regola, sacralizzando quello che potrebbe avere un rapporto con la divinità; per entrare in contatto con essa in un modo più sicuro e rassicurante, organizza riti che si tramandano nel tempo, dando per scontata la loro efficacia.

La sicurezza che sperimenta nel porsi sotto la protezione di un potente, la costante trepidazione nel trovarsi in sua balia e la paura di poter cadere in disgrazia lo spingono ad assumere lo stesso atteggiamento verso la divinità, da cui spera ricevere protezione e aiuto.

Il bisogno individuale diventa collettivo e le tribù, le città e le nazioni scelgono un loro dio, perché le assista e combatta contro le divinità dei loro avversari.

I millenni trascorreranno, muteranno le strutture sociali ma questo bisogno primordiale resterà sempre; anche quando gli uomini pregheranno lo stesso Dio, nelle guerre come nelle contese si rivolgeranno a lui perché parteggi per l’una o l’altra delle parti contendenti.



 

Il sacro e l’organizzazione del sacro

 

La paura del divino porta gli uomini a mantenere una riverente distanza da esso e a mediare il rapporto tramite il capo della famiglia o del gruppo di appartenenza.

Quando l’organizzazione sociale diventa più complessa, emerge qualcuno che si fa carico di mantenere il rapporto di mediazione; nello stesso tempo il pensiero magico, sempre latente, porta a organizzare riti ai quali si attribuirà il potere di influenzare gli eventi.

 

I riti diventano sempre più complessi e articolati, si sacralizzano e si tramandano invariati.

I mediatori divengono specialisti del sacro e si assumono stabilmente l’onere di mantenere i rapporti col divino.

Non è più l’uomo comune, sgomento per la propria impotenza di fronte alle divinità, che si rivolge a loro per placarle e ingraziarsele.

Al dio si dà voce, per avere risposte nei dubbi e per ricevere i suoi oracoli: gli specialisti del sacro sono pronti a mediare, comunicando le risposte che le divinità danno attraverso i sogni o altri eventi.  Come interlocutori diretti, si inseriscono nell’alone del divino e acquisiscono, oltre al rispetto, prestigio e potere.

 

Il bisogno di mediazione, in tutte le sue forme, sarà una costante che resterà invariata nei millenni.



 

Il sacro e l’industria del sacro

 

La figura del mediatore col divino s'istituzionalizza e si organizza in classe sacerdotale.

 

L’uomo, anche nel suo rapporto col trascendente, non riesce a staccarsi del tutto dagli interessi egoistici e a prescindere dai vantaggi e dalle gratificazioni personali.

Gli addetti al culto delle divinità restano sempre esseri umani; non c’è quindi da stupirsi se il divino tende a sfumare e al centro resta il mediatore, il sacerdote, con i vantaggi e le prerogative che il ruolo comporta.

 

La sacralità si estende ai luoghi di culto che si trasformano in templi sempre più fastosi, attorno ai quali fiorisce l’industria del sacro; i vantaggi, non certo indifferenti, sono in favore dell’ipotetica divinità, ma a gestirli e a usufruirne è chi vi ruota attorno.

Da parte dei fruitori del sacro, l’ansia suscitata dal mistero è sempre in agguato. Ci si difende accettando passivamente le soluzioni proposte; ribellarsi comporterebbe sfidare la collera divina, col rischio di ritorsioni imprevedibili.



 

Il sacro e la strumentalizzazione del sacro

 

Il rapporto col divino risponde a un bisogno profondo, ma la sua gestione coinvolge necessariamente esseri umani; quando entrano in gioco interessi personali, sia pure in buona fede, il pericolo di prevaricazione è sempre presente.

 

È questo un rischio sempre incombente che si perpetuerà nei millenni; all’arbitrio del singolo intermediario con la divinità, subentreranno i vertici della gerarchia, che si faranno carico di interpretarne il volere.

Chi religiosamente ascolta i comandi divini si sentirebbe in colpa nel mettere in discussione l’autenticità del messaggio trasmesso dall’autorità costituita. La coscienza dell’individuo preferisce farsi manipolare dall’autorità di turno, in modo da sentirsi al sicuro, anziché assumere la responsabilità di una propria posizione, col dubbio che possa non trovarsi nel giusto.

Le forme muteranno, si faranno sempre più subdole e camuffate da motivazioni elevate.

Quando i limiti saranno oltrepassati, sorgeranno figure profetiche che tenteranno di smascherare le prevaricazioni; figure che nell'immediato saranno oggetto d’ostracismo, perché in conflitto con gli interessi dell’autorità del momento, ma che incideranno ugualmente; nel tempo saranno spesso rivalutate fino a diventare portatrici della parola di Dio.

Passeranno secoli, forse, prima che una nuova autorità, con circospezioni e cautele, per non incrinare la continuità della dottrina, valorizzi quanto le voci di dissenso avevano profeticamente proposto.



 



 

 

3.    Il bisogno
di rappresentazione del sacro

 

La capacità di rappresentarsi la realtà esterna è circoscritta ai dati sensibili ed è finalizzata alla propria sopravvivenza.

La mente umana può solo elaborare quanto perviene attraverso gli organi di senso.

La divinità trascende la conoscenza sensibile; vi si può giungere attraverso immagini ricavate dall’esperienza della vita reale.

A.  Limiti umani

 

Da sempre si è parlato di limiti della conoscenza umana, ma si è trattato di un luogo comune, di fatto spesso ignorato. È illusorio continuare a enfatizzare l’ampiezza e il valore assoluto delle nostre capacità conoscitive e logiche. 

Alcune considerazioni ci potrebbero aiutare a far luce.

L’organizzazione percettiva, base del conoscere

 

Il nostro modo di conoscere è basato sui dati forniti dai sensi e sulle elaborazioni del nostro sistema nervoso centrale; è quindi condizionato dalle loro rispettive conformazioni.

Sorge un primo problema: il nostro apparato sensoriale riproduce in modo rigorosamente fedele la realtà esterna?

Fuori di noi, numerose radiazioni, per la stragrande maggioranza da noi non percepite, seguono il loro corso e a volte ci attraversano. Solo alcune e per una gamma ristretta sono captate dal nostro apparato sensoriale e tradotte in rappresentazioni dal nostro sistema nervoso centrale.

 

Tramite queste poche informazioni costruiamo una nostra immagine della realtà esterna; basterebbe un apparato sensoriale differente per avere una rappresentazione del tutto diversa.

Attraverso questo processo, il mondo fisico (realtà com'è in sé) è tradotto in mondo fenomenico (realtà come appare a noi).

La selezione di quello che è percepito dal nostro organismo non è avvenuta in modo casuale; il nostro apparato sensoriale - ereditato dalle specie inferiori - si è modellato, nel corso di milioni di anni, in modo da selezionare quanto è necessario o utile per la sopravvivenza e il benessere, non per soddisfare esigenze speculative.

 

Inoltre, nell’ambito dello stesso campo sensoriale, ad esempio la vista, affluiscono costantemente un’infinità di dettagli che sarebbe impossibile registrare singolarmente e in modo completo.

Il cervello, con un processo automatico che sfugge al nostro controllo, seleziona e registra quelli che in quel momento appaiono più significativi e meglio compatibili col patrimonio mentale preesistente; al momento di rievocali, sempre con un meccanismo automatico, li integra con altri - anche creati - ma che appaiono coerenti.

La ragione, da canto suo, può solo elaborare i dati già immagazzinati attraverso l'apparato sensoriale: Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu (nulla è nell'intelletto che non si trovi prima nei sensi). (Tommaso d'Aquino, De veritate, q. 2 a. 3 arg. 19) 

È un assioma ereditato dal pensiero aristotelico e considerato fondamentale dalla filosofia scolastica.

 

L’insieme della struttura biologica, che determina la nostra conoscenza, è programmata geneticamente, in funzione del nostro adattamento all’ambiente. Quanto esula dalla quotidianità può essere solo ipotizzato, ma nessuno garantisce che le nostre ipotesi, anche se paludate dall’appellativo di teorie scientifiche, siano del tutto rispondenti alla realtà; spesso, però, pretendiamo di regolamentare, con la nostra logica, eventi che trascendono la nostra esperienza.

L’evoluzione degli studi delle scienze fisiche costituisce un esempio illuminante; concetti che nella fisica classica erano considerati assiomi indiscutibili, come la distinzione tra materia ed energia o la costanza e rigidità delle coordinate spazio-temporali, nell’ultimo secolo sono stati superati.

Ciò non significa che la fisica classica abbia perduto il suo valore; nella quotidianità continueremo a utilizzare le sue scoperte, pur non assolutizzandone i parametri di riferimento e prendendo atto che esistono modelli interpretativi diversi, ai quali far appello in determinate circostanze.

A maggior ragione non possiamo considerare verità assolute i modi con i quali tradizionalmente ci siamo rappresentate realtà che superano la nostra capacità di conoscenza.

A volte, fra i credenti, si fa appello alla rivelazione, ma si dimentica che il contenuto può essere trasmesso solo attraverso immagini e concetti adattati alla nostra logica, alle nostre modalità di conoscenza e alle condizioni socio-culturali in cui, di fatto, interviene. Se dovessimo prendere alla lettera le espressioni dei Libri sacri, dovremmo ancora pensare che la pioggia scende di volta in volta per un diretto intervento divino. In caso di siccità, continueremmo a recitare l’orazione ad petendam pluviam (per chiedere la pioggia), nella speranza che Dio, impietosito dalle nostre accorate richieste, vada ad aprire una qualche cataratta del cielo, per mandare la sospirata pioggia sul nostro orticello, dove coltiviamo l’insalata e non nella vigna del vicino dove potrebbe compromettere la vendemmia. Certo, potrebbe essere anche comodo, perché ci risparmierebbe la fatica di costruire un impianto d’irrigazione; nello stesso tempo ci dissuaderebbe dal progettare dighe, per prevenire un’alluvione, poiché boicotterebbero la vendetta di Dio, che intende mandare le catastrofi per punire le malvagità degli uomini!

Tutto questo oggi ci appare ridicolo e ammettiamo - obtorto collo - che tante espressioni non debbano essere prese alla lettera; tuttavia, preferiamo limitarci a spostare la frontiera dell’interpretazione per il minimo indispensabile, solo quando siamo costretti dall’evidenza.

Non osiamo, coraggiosamente, abbatterla per ampliare il parametro di riferimento. I casi di Copernico, Galileo, Darwin, Freud e tanti altri dovrebbero insegnarci qualcosa!

Potremmo oggi chiederci se abbia senso il tentativo passato di disquisire sull’essenza divina, trasformando in verità ontologiche espressioni usate nel contesto di esortazioni, miranti a rendere migliore il rapporto dell’uomo con la divinità e con i propri simili.

Perché i concetti fossero comprensibili, era indispensabile esprimerli con termini presi dal linguaggio corrente in quel periodo storico, ma è legittimo sacralizzare quel linguaggio e attribuire a quelle espressioni un valore assoluto, come rivelatrici di verità che ci trascendono? 

 

Riprendendo l’argomento della percezione, quando l’oggetto non è ben definito, possono seguire interpretazioni differenti.

Se lo stimolo è complesso, fino al coinvolgimento della sfera cognitiva, le nostre percezioni possono variare in funzione delle differenze individuali.

Meno definito è l’oggetto, più marcata è l’incidenza del soggetto; è illusoria, quindi, la pretesa di una conoscenza obiettiva, identica per tutti.

 

Quanto avviene, a livello di pura percezione delle forme, è molto amplificato nel campo più vasto dell'interpretazione delle situazioni.

Lo stesso evento, visto da spettatori diversi, può essere interpretato in modo completamente diverso, secondo le caratteristiche psicologiche personali, le predisposizioni e le aspettative; ciascuno lo interpreta, per così dire, a modo proprio e resta con la convinzione che la sua interpretazione sia quella esatta e corrisponda alla realtà oggettiva.

Nei resoconti dei viaggi di Cristoforo Colombo verso le nuove terre si legge un episodio curioso.

Approdando in una nuova regione, i membri dell'equipaggio videro, in lontananza, un gruppo d'indigeni intenti a osservare. Non trovando di meglio per far capire le loro intenzioni pacifiche, improvvisarono una danza; da parte degli indigeni seguì un lancio di frecce. Seppero poi che quelle tribù iniziavano gli scontri con i rivali col rito di danze.

Il messaggio che gli spagnoli volevano dare, facendo appello alla propria cultura, era stato interpretato dagli indigeni in modo opposto, coerentemente alle loro abitudini.

 

Se poi l’evento è lontano nel tempo e giunge a noi in modo frammentario e già filtrato, le possibili letture diventano più differenziate.

La memoria e la fedeltà dei ricordi

 

Quanto percepito può essere conservato nella memoria, ma anche i ricordi subiscono un processo di alterazione.

La nostra memoria non è paragonabile a quella rigida di un computer; i ricordi sono materia viva che col tempo si modifica secondo leggi finalizzate a mantenere un nostro equilibrio interno.

È riconducibile a questo la sensazione che molti di noi abbiamo provato rivedendo, dopo molto tempo, un luogo dell'infanzia: ci appare diverso e deludente; tutto è più piccolo e spoglio. Il luogo era rimasto identico; era cambiato il ricordo, modificato per adeguarsi al cambiamento delle nostre dimensioni corporee e ai vissuti che si erano susseguiti.

È, quindi, illusorio pensare che i nostri ricordi siano del tutto fedeli ai fatti realmente accaduti.

 

"Io ho fatto questo" dice la mia memoria. "Io non posso aver fatto questo" dice il mio orgoglio e rimane irremovibile. Alla fine è la memoria ad arrendersi. (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 1886)

 

È quanto il filosofo scriveva, ancor prima che l’argomento si affrontasse a livello scientifico.

 

Il primo adattamento avviene a livello percettivo; la prosecuzione delle alterazioni continua nella memoria, attraverso il processo di adeguamento dei ricordi alle mutate situazioni.

A parte le creazioni letterarie o le trovate dei buontemponi che mettono in giro fatti puramente inventati, nella trasmissione di racconti di avvenimenti realmente accaduti vi sono costanti alterazioni, bonariamente accettate come normali.

Chi assiste a un avvenimento lo osserva sommariamente da un suo punto di vista, coglie gli elementi per lui rilevanti a conferma di un pensiero preesistente e integra in funzione di esso gli aspetti che in quel momento non sono presi in considerazione. Col passare del tempo, altri dettagli sfuggono e sono integrati allo stesso modo. L'ascoltatore, a sua volta, si forma una propria idea, in base ai pensieri e alle disposizioni del momento e in perfetta buona fede, a sua volta, riferisce l'idea che si era fatta; si tratta di un processo abituale che non mette in discussione la buona fede e l'attendibilità del narratore.  Le alterazioni sono accentuate in presenza di stati emotivi o di forti convinzioni che si vogliono avvalorare; oltre a deformare ulteriormente i ricordi, senza che ci si renda conto, si tende ad aggiungere dettagli atti a caratterizzare, in modo più incisivo, il racconto e avvalorare le convinzioni stesse.  

Quando non si ha la possibilità di un controllo, non è facile risalire al nucleo originario di verità.

A un raggio più vasto, il problema investe il campo della storia. Oggi si sente l'esigenza - o si ha la pretesa! - di una ricostruzione dei fatti rispondente alla realtà.

Nella storiografia antica, sull'oggettività dei resoconti prevaleva la tesi da dimostrare.  Cicerone vedeva la storia come un genere letterario: Opus oratorium maxime (lavoro prevalentemente oratorio).

 

Traducendo il concetto in chiave più recente, qualcuno ha scritto:

 

Quando comincia una guerra, la prima vittima è sempre la verità. Quando la guerra finisce, le bugie dei vinti sono smascherate, quelle dei vincitori diventano storia. (Arrigo Petacco)

 

Il problema diventa più complesso nella trasmissione di orientamenti di pensiero.

Dalla percezione alla formazione delle ideologie

 

Abbiamo parlato dei limiti della conoscenza, partendo dai processi percettivi e della fedeltà dei ricordi; proseguiamo nella riflessione sulla formazione delle idee.

La formazione delle ideologie e l’adesione alla fede

 

L’apporto soggettivo è determinante nelle teorie che elaboriamo, nelle ideologie alle quali aderiamo o nella fede che professiamo, più di quanto non avvenga nella pura conoscenza.

L’esperienza quotidiana ci mostra con evidenza come, partendo dagli stessi presupposti e dagli stessi dati oggettivi, le singole persone possono elaborare modi di pensare diversi.

Quanto più le situazioni sono complesse, tanto maggiore è la molteplicità delle interpretazioni che ne seguono.

Si tratta dell'incidenza delle variabili individuali, di cui non sempre si tiene conto.

 

Nel caso di una fede religiosa, anche quando si aderisce a qualcosa di proposto o imposto dall’ambiente in cui si vive, ciascuno tende a personalizzarla secondo le proprie esigenze, a condizione che la struttura che la propone lasci uno spazio sufficiente per questo processo di adattamento.

Parlando d'imposizioni, non necessariamente bisogna tornare col pensiero al periodo della santa inquisizione.

Esistono forme di ricatto attraverso le quali si è indotti a pensare che la non accettazione totale di quel credo religioso, con quelle rigide modalità con le quali viene presentato, comporti spaventosi castighi eterni.

 

 

Si perde di vista un processo naturale: perché un’ideologia o una fede religiosa sia veramente assimilata, è necessario che trovi una profonda risonanza nella propria interiorità.

 

Una trasmissione rigida può trovare una sintonia solo in una minoranza; negli altri lo stato di conflitto ingenerato potrà determinare adesioni superficiali o reazioni di rigetto, con modi differenti secondo le condizioni soggettive nelle quali l’individuo si trova:

 

-          Potrà seguire un’intolleranza con reazioni astiose e viscerali.

-          Si potrà incontrare un rifiuto formale, ma un’adesione intima a certi aspetti che sono proposti, come nei cosiddetti atei devoti, convinti di non poter avere il diritto di considerarsi credenti solo perché il loro modo di credere non collimerebbe col linguaggio usato da chi è considerato il rappresentante di quella fede.

-          Si potrà slittare nell’indifferenza e nell’apatia, limitandosi, eventualmente, a qualche pratichetta sporadica, solo per mantenere un qualche aggancio e non sentirsi in colpa.

-          Si potrà ancora avere una fanatica adesione formale, un’osservanza rigida di determinate pratiche, proprio per sentirsi nel giusto, ma l’assenza di coinvolgimento interiore nel vero spirito della religiosità professata; era questo l'atteggiamento condannato da Gesù nei farisei.

Dalle convinzioni individuali alle realtà sociali

 

Queste osservazioni introducono un altro argomento di cui tener conto: la trasmissione delle idee che costituiscono la base di gruppi fortemente caratterizzati.

Se il messaggio investe problemi esistenziali profondi che coinvolgono l'intera vita dell'individuo, con prospettive di salvezza proiettate a livello extra-terreno, si parla di orientamento religioso, ma si potrebbero avere altre finalità.

Gruppi fortemente caratterizzati si possono anche formare all'interno di organizzazioni già esistenti e in accordo con esse; esempi potrebbero essere costituiti dai vari tipi di comunità, nell'ambito della stessa fede.

 

Quando i gruppi sono circoscritti e si formano in opposizione agli orientamenti dominanti, si suole parlare di sette.

In esse l'aspetto di coesione e di forte caratterizzazione è particolarmente marcato.

Se, in seguito, il pensiero si diffonde, al punto da permeare la struttura sociale, si perde la denotazione di setta e si parla di religione, di orientamento politico o di forme similari, pur essendo larvatamente presenti caratteristiche che s'incontrano in modo più marcato in quelle denotate come sette.

 

In campo psicologico, la differenza tra normale e patologico non è di ordine qualitativo ma puramente quantitativo.

È questo il motivo per cui pensiamo di focalizzare il nostro discorso sulle sette. Anche se nel linguaggio corrente spesso si indicano gruppi di fanatici ai margini della normalità, non intendiamo dare al termine alcuna connotazione negativa; lo consideriamo semplicemente nella sua accezione etimologica: separato, a indicare la caratterizzazione specifica che distingue il gruppo dalla realtà sociale in cui si sviluppa.

La descrizione di comportamenti, in certi casi estremizzati, ci serve soltanto per capire quanto può avvenire, in misura minore, nelle dinamiche dei gruppi considerati nell'ambito della normalità.  D'altronde, anche le grandi religioni, al loro sorgere, furono inquadrate come sette.

 

L'adesione a una setta spesso fa leva sul bisogno d’appartenenza presente, sia pure in misura diversa, in ogni persona, ma particolarmente accentuato in soggetti vulnerabili e insicuri; si avvicinano a esse per cercare qualcosa che permetta di superare la delusione incontrata nel resto del mondo.

Inizialmente la setta, alla quale ci si avvicina, è vista come proponente e fraterna, non come impositiva di un qualche credo; l’individuo è poi gradualmente portato all'adesione alla dottrina del gruppo in modo cieco e acritico.

 

Caratteristica di tutte le sette, religiose o di altro genere, è l'organizzazione autoritaria che riduce le responsabilità dell'individuo, siano queste di ordine intellettuale o riferite alla vita corrente; ogni decisione e responsabilità è rimandata alle gerarchie.

L’autoritarismo ha sempre un suo fascino, specie sulle menti più insicure, perché offre certezze. Fa leva su una latente paura della libertà, paura insita nell'intimo di ciascuno: libertà significa responsabilità e obbligo di fare delle scelte, quindi rischio di sbagliare.  Delegando la decisione ad altri, investiti di autorità o di carisma, si soddisfa il bisogno di certezze e si superano ansie, dubbi e ripensamenti.

L’episodio paradossale del Grande Inquisitore, che Dostoevskij fa raccontare a Ivàn Karamàzov, illustra brillantemente il concetto e dovrebbe farci riflettere.

 

Il gruppo blinda il proprio modo di pensare e interrompe lo scambio con l'esterno, operando anche una censura sui canali d'informazione: letture, programmi culturali o quant'altro possa mettere in discussione le idee professate.

Nessun gruppo si può considerare immune da questo rischio.

Cosa dire, nell'ambito della Chiesa cattolica, della censura sugli scritti, culminata nell'Index librorum prohibitorum (Indice dei libri proibiti), creato nel 1559 da papa Paolo IV.  e in vigore per quattro secoli, fino alla sua abrogazione col Concilio Vaticano II?  In esso, il 5 marzo 1616, figurarono le opere nelle quali Copernico esponeva il suo sistema e quelle di altri che lo condividevano.  Sarebbe azzardato pensare che tale censura sia stata ispirata dallo Spirito Santo!

 

Chi, per esclusivi motivi di studio, intendeva accedere ai libri proibiti, poteva farlo, ma con richiesta di specifica autorizzazione che veniva accordata a precise condizioni. Quella a me concessa, fino al non lontano 1966, ne mostra il tenore.

Il fanatismo che caratterizza l'adesione cieca traduce spesso, in alcuni membri, la paura di mettere in discussione credenze percepite - nel proprio intimo - come fragili ma alle quali ci si aggrappa.

Ciascun membro si sente più sicuro nell'aderenza fedele alle idee del gruppo e chiede ai più influenti sempre maggiori specifiche per aumentare la propria sicurezza.

 

Si soddisfa il bisogno d’identità nell’appartenenza a un gruppo fortemente caratterizzato; coloro che sentono maggiormente il bisogno di questa appartenenza condizionano il gruppo stesso a conservare rigidamente la sua caratterizzazione.

Nello stesso tempo, questa fedele dipendenza incrementa la stima goduta in seno al gruppo. Con essa, l'individuo - additato a modello - acquista maggiore sicurezza e prestigio; per far crescere ancora il prestigio conquistato, aumenta il suo bisogno di ostentare dipendenza.

Ne seguono meccanismi che portano all'emulazione e al controllo reciproco.

 

Superfluo osservare che per avanzare nella scala gerarchica (far carriera!), elemento indispensabile è la fedele adesione alle idee professate da chi, stando in alto, è arbitro delle promozioni, in modo da garantire la conservazione di ciò che è tramandato.



 

B.  Condizionamenti culturali

 

Quando l’oggetto della conoscenza diventa più complesso, abbiamo bisogno di far riferimento alle sintesi operate da chi ci ha preceduto, dall’ambiente in cui viviamo e dai modelli d’organizzazione sociale a noi familiari.

Tutto questo costituisce il modo di pensare corrente nei vari periodi e nello stesso tempo condiziona il modo di percepire la realtà e di tradurla nei concetti e nel modo di esprimerli. 

Col mutare delle condizioni sociali e culturali, buon senso vorrebbe un adeguamento del linguaggio.

A questo proposito, non è certo fuor di luogo ricordare l’esortazione del Papa Giovanni XXIII in occasione del Concilio Vaticano II:

 

Altro è il deposito o verità della fede, altro è il modo con cui esse vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo.

 

Questa esortazione è stata citata nella costituzione pastorale Gaudium et spes (1965) dello stesso Concilio Vaticano II (§ 62,2); essa invita i teologi a cercare sempre il modo più idoneo per comunicare la dottrina ai loro contemporanei:

 

Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia buon uso […] anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti ad una più pura e più matura vita di fede.

 

Alla luce di questi autorevoli interventi mi sembra opportuno proporre qualche riflessione.

Nel passato non si conoscevano molte leggi che governano il mondo fisico, né - tanto meno - erano conosciuti i meccanismi psicologici che regolano i processi del pensiero.

Quando non si trovava una spiegazione plausibile, si attribuivano gli eventi a entità sovrumane, dando alla divinità un volto e un modo di pensare simile a quello - più familiare - dell'uomo.

Nell'impossibilità di riscontri concreti, si disquisiva facendo appello a un mondo parallelo, quello del soprannaturale.

Oggi, in campo scientifico, si ha la pretesa di conoscere tutto anche se si sa bene che non sempre ciò che ipotizziamo corrisponde al vero.

Al posto della divinità antropomorfizzata, proposta dal simbolismo dei Libri sacri e consacrata dalla tradizione, si pongono la dea ragione e la scienza, considerata da molti inappellabile.

 

Volendo riflettere sulla rappresentazione della divinità, il bisogno di renderla comprensibile facendo riferimento all’organizzazione sociale del tempo, sia pure idealizzata, è una profonda esigenza della mente umana, non certo una libera scelta.

Se l’organizzazione cambia, è evidente la necessità di cambiare i riferimenti, se si vuol continuare a rendere comprensibile e coinvolgente quanto proposto.

 

A titolo d’esempio, accenniamo a un concetto che riprenderemo in seguito.

Nel passato l’impostazione familiare era rigidamente patriarcale e ad essa faceva riscontro un’organizzazione sociale autoritaria tradotta dalle grandi monarchie.

Era normale che le leggi fossero calate dall’alto come volontà del sovrano; di riflesso, anche la legge morale era presentata come volontà di Dio.

Oggi ci si avvia alla democrazia e le leggi dovrebbero esprimere le esigenze del popolo; come conseguenza, anche la legge morale dovrebbe essere presentata come la codifica delle esigenze umane più profonde.

Sul piano dottrinale non cambierebbe nulla, perché dire che Dio ha dato determinate leggi o dire che Dio ha fatto l’uomo con queste esigenze è esattamente lo stesso.

Sul piano pedagogico cambia radicalmente perché la legge non è più l’espressione arbitraria di una volontà esterna, sia pure divina, ma il modo di realizzarsi pienamente come esseri umani.

Ovviamente la condizione è che non si continuino a spacciare come volontà divina i pregiudizi o i tabù legati a determinati periodi storici.

C.   Realtà individuale

 

Il modo di rappresentarsi il trascendente è strettamente individuale e dipende dalle nostre esperienze di vita e dal modo con cui sono stati da noi filtrati gli elementi messi a disposizione dall’ambiente.

Come già osservato, maggiore è l’inafferrabilità dell’oggetto, più determinante è l'influenza della struttura mentale di chi si sforza di rappresentarselo.

Ne è prova la considerazione che, partendo dalle stesse realtà (e per i credenti dagli stessi dati della rivelazione), filosofi e teologi elaborano sistemi rappresentativi profondamente differenti.

 

 

Come per me, per chiunque si pone in ascolto del messaggio religioso, l’accettazione profonda di una verità, presentata in un certo modo, è determinata dalla sintonia che quel modo trova in lui: è recepita autenticamente se dà corpo a quanto, sia pure in forma latente e confusa, è presente o se è atta a colmare profondi bisogni esistenziali.

Quando non si realizza una sintonia tra il modello interpretativo proposto e le proprie esigenze, la verità trasmessa potrebbe essere rifiutata o accettata in modo superficiale e superstizioso o vissuta nevroticamente, per sedare uno stato d’angoscia o per soddisfare un bisogno infantile o ancora per sentirsi nel giusto.

Un messaggio presentato, a esempio, con un linguaggio tradizionale e non più pregnante come lo era un tempo, potrebbe non trovare oggi risonanza, se non in una cerchia ristretta di persone. Potremmo essere soddisfatti del piccolo gruppo, delle piccole comunità, ben integrate con le nostre proposte, ma di tutti gli altri - e sono la stragrande maggioranza - chi si prende cura?

Per questo motivo, buon senso vorrebbe che si propongano modelli flessibili; a ciascuno, poi, il diritto di rappresentarsi le stesse realtà oggettive, nel modo a lui più confacente, di costruirsi un proprio modello del trascendente e non l’obbligo di stendersi su un letto di Procuste.

Possiamo prendere in prestito, più o meno convinti, i modelli proposti, possiamo essere indotti a farlo con la minaccia di pene eterne se ci mostriamo renitenti, ma se quanto ci è presentato, sia pure in modo autorevole e credibile, non trova una risonanza intima dentro di noi, anche se accettato, resterà dentro come un corpo estraneo, con una crisi di rigetto sempre in agguato.

 

Le disposizioni interiori di cui si parla hanno spesso radici profonde, inaccessibili alla nostra introspezione e non sempre comprensibili attraverso la comune logica.

Sedimentazioni inconsce potrebbero spingere ciecamente a determinate scelte e alla tanto decantata ragione non spetta altro che il compito di elaborare giustificazioni plausibili a scelte che non le appartengono.

 

*      *      *

 

Coerentemente con queste riflessioni, volendo esporre una mia visione della religione, per onestà intellettuale, sento il bisogno di presentarmi, accennando alle mie prime esperienze di vita e alle tappe salienti negli stati d’animo che si sono susseguiti.

In altri termini, vorrei dire: Se mi propongo di considerare il fenomeno religioso da una certa angolatura, se mi sono costruiti determinati parametri di riferimento e se penso quanto sto scrivendo è perché sono questo, con questa mia storia e con questi miei vissuti.

Accennerò, quindi a tre tappe che hanno caratterizzato la mia vita.

 

A pensarci bene, alcune esigenze di base, sempre presenti fin dalla prima infanzia, hanno interagito in modo diverso nell’adolescenza e nella fase giovanile, fino a fondersi e determinare l’orientamento che mi ha accompagnato fino a oggi.



 

Il mio mondo infantile

 

La mia prima infanzia, trascorsa in campagna fin dalle prime settimane di vita, è stata all'insegna della spontaneità: vivevo quasi allo stato brado, come i tanti animali domestici che popolavano i dintorni della masseria.

Tutta la vita si svolgeva in modo primitivo. Mancavano l'energia elettrica, l'acqua corrente e i servizi igienici; gli elementari bisogni naturali erano soddisfatti in un qualche angolo remoto.

 

La vita si svolgeva all'aperto, a contatto e quasi in simbiosi col mondo circostante, seguendo il movimento del sole, scandito dalla lenta alternanza delle ore e dai lavori propri di ognuna di esse; ogni ora era tutta da vivere e trascorreva lentamente, permettendo di prepararsi all’ora successiva,

Anche il ritmo del sonno e della veglia era regolato dal sole, riducendo al minimo le forzature delle fioche luci dei lumi a petrolio.

Le mura domestiche servivano solo per il riposo notturno, come luogo dove consumare i pasti e per proteggersi dalle condizioni atmosferiche avverse.

I contatti sociali erano pochi e l’assenza di coetanei mi faceva immergere sempre più in quello che l’ambiente mi offriva: gli animali allo stato brado e la natura che faceva da cornice.

Questo genere di vita ha determinato, in me bambino, come un imprinting che ha permeato l’intera mia esistenza e che mi ha permesso un successivo recupero, scrollandomi tanti condizionamenti, non consoni col modello inizialmente assimilato.

 

È rimasto in me un profondo bisogno di sintonia col mondo circostante, di armonizzare e di far rientrare le esigenze parziali in un quadro più vasto.

Alla luce di questo, avrei potuto meglio affrontare e superare gli stati di conflitto contingenti. Non sempre è stato facile e immediato, ma la tendenza latente è rimasta costante.

Lo stile di vita assimilato ha permeato anche il mio rapporto con gli oggetti, il mio modo di pensare e i modelli interpretativi teorici che lentamente mi sono costruiti.

 

Da piccolo, non ho mai avuto giocattoli preconfezionati; l’unica possibilità era di costruirli da me, attivando la fantasia.

La mancanza di coetanei rendeva, inoltre, impossibili i giochi di gruppo e mi obbligava a trascorrere il tempo da solo, smanettando.  Col passare del tempo i modi si evolvevano, ma il gusto per la manipolazione e l’autonomia nell’affrontare i problemi sono rimasti costanti.

Si trattava di giochi, ma permettevano di attivare la creatività che mi ha sempre accompagnato.

 

Quel genere di vita ha sviluppato, in me bambino, atteggiamenti autonomi. Non vi erano adulti che collaboravano nelle mie costruzioni o pronti a intervenire per risolvere i problemi al posto mio; le poche volte in cui erano presenti, si limitavano a osservare o a commentare bonariamente quanto avevo fatto.

Ero solo ad affrontare i miei piccoli problemi, ma ciò non mi angosciava; mi stimolava a trovare soluzioni, riflettendo e trascorrendo il tempo a rimuginare sul modo come raggiungere lo scopo.

 

Ogni medaglia ha, però, il suo rovescio.

Da adulto sono stato poco incline a seguire una vita da gregario, a ingraziarmi i detentori del potere, perché agevolassero la realizzazione dei miei progetti, a seguire le normali trafile che l’organizzazione attuale impone per raggiungere traguardi.

Ho preferito sempre agire in modo autonomo, pagando di persona gli inevitabili insuccessi, senza mai deprecare la sorte avversa o ribaltare le responsabilità sugli altri.

 

 

 

L’omologazione e l’indottrinamento

 

Poi cominciarono a parlarmi di scuola, qualcosa che m’incuriosiva, ma nello stesso tempo mi creava una malcelata apprensione, come tutte le cose nuove. Fu proprio la scuola, che segnò l’inizio del processo di “omologazione” a un contesto sociale diverso, a me estraneo per tutta la mia infanzia.

 

La permanenza in paese, in casa della nonna, e la frequenza della scuola rappresentarono il primo radicale cambiamento nel mio modo d’essere e nei miei rapporti con l’esterno.

 

Finito la frequenza della quinta elementare, con un entusiasmo indotto, iniziai a frequentare il Piccolo Seminario del paese.

La nuova vita era scandita dal passaggio, sempre in fila e in silenzio, da un ambiente all’altro: dormitorio, chiesa, aula di scuola, breve ricreazione nel piccolo cortile con giochi di gruppo obbligati, studio, refettorio, per poi ricominciare.

Mancava il tempo e lo spazio, dove potermi sbizzarrire con le attività che avevano reso felice la mia infanzia.

La vita era regolata da una disciplina che riduceva sempre più la possibilità d’essere me stesso.

L’autorevolezza serena di mio padre aveva ceduto il passo all’autorità coattiva della nonna, per poi trasformarsi, a scuola, in asservimento imposto, nel nome di un’onnipotenza delirante: l’immagine del Duce sempre dominante.

Ora l’autorità - a buon diritto - era sacralizzata e il potere si estendeva al mondo degli oggetti: una campana si animava trasmettendo coi suoi rintocchi la voce di superiori e dietro la loro … la voce di Dio.

In questo crescendo non fu difficile farmi accettare una realtà in cui ideali sublimi erano frammisti a scorie superflue che ne svisavano l’essenza.

L’orizzonte infinito si restringeva, sostituito da mura alte e prive di spiragli, fino a ridursi a un piccolo rettangolo per poi dissolversi, mentre si andava profilando un altro cielo, più grande, popolato di angeli e di santi, bello, sublime … ma non era il cielo che mi aveva fatto sognare nell’infanzia.

Era un cielo da accettare perché presentato da sponsor buoni, suadenti, che sapientemente sapevano contrapporlo all’abisso dell’inferno, ma non era il cielo infinito che mi aveva accolto da bambino; cielo che si chinava provvido sull’uomo, si oscurava fino a giungere al buio della notte popolata di stelle, per poi rivestirsi dello splendore dell’aurora.

Potevo guardarlo fiducioso, in esso potevo immergermi, come in una simbiosi che mi facesse vivere in pace con me e in sintonia con gli uomini, nel rispetto degli altri e nell’amore, senza una burocrazia solerte nel tenere la contabilità delle mie azioni. 

A questa burocrazia dovetti a poco a poco assuefarmi.

Alle norme di serena convivenza e d’amore per i fratelli, si andavano sovrapponendo, fino a sommergerle, minuziose regolette, che avevano come scopo precipuo l’agevolare il controllo su noi alunni. Regole da osservare come obblighi di “coscienza”, che non consentivano evasioni d’alcun genere.

 

 

Col passare del tempo, come per ogni adolescente che si rispetti, si fecero strada le crisi e i turbamenti.  L’attenzione si focalizzava sui problemi interiori e volevo capire quanto mi succedeva; all’interesse inizialmente centrato su di me, subentrò il tentativo di capire gli altri. Si faceva strada progressivamente il bisogno di affrontare problemi di ordine psicologico, anche se allora si trattava di un campo quasi sconosciuto e questo termine era raramente usato.

 

Nello stesso tempo, pensando alla figura del sacerdote, prendevo sempre più le distanze da quello che allora consideravo il burocrate del sacro e molto più dall’idea di un mio inserimento in una classe riverita e forte, come avrebbe detto il buon Sandro, parlando di don Abbondio; nemmeno l’idea di mediatore tra Dio e gli uomini mi entusiasmava.

Per la verità, la via del culto e le attività liturgiche non mi avevano mai attirato, ma ero andato avanti convinto che quella fosse la mia strada e il pensiero di una scelta differente mi faceva sentire in colpa.

 

Non intendevo sminuire queste funzioni, ma non me ne sentivo coinvolto.

Piuttosto, coltivavo la prospettiva di potermi dedicare completamente agli altri, senza vincoli familiari; di poter alleviare le loro sofferenze e di portare loro il messaggio d’amore, la buona novella annunziata dal Cristo, usando i modi a me più congeniali.

Non lo sapevo ancora, ma si profilava il tentativo di penetrare nella genuinità del messaggio evangelico e di tradurlo in uno stile di vita.  Avrei cercato di sfrondarlo dalle sovrastrutture, dagli inutili fardelli che nel corso dei secoli si erano accumulati.

 

Terminati il corso di teologia, mi trasferii a Roma per studiare filosofia all’Università Gregoriana.

Dal chiuso del Seminario di Catania, mi trovai catapultato in un ambiente più aperto, con colleghi e docenti provenienti da oltre cinquanta diverse nazioni, accomunati dalla lingua ufficiale: il latino, usato nelle lezioni, nei libri di testo, agli esami e perfino nel disbrigo delle pratiche di segreteria.

Il confronto con modi di pensare diversi cominciò ad aprire altri orizzonti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riemerge il mio orizzonte

 

Mi sembravano decenni, eppure non erano ancora passati due anni dall’inizio della mia permanenza a Roma.

Cominciavo a guardare la vita con occhi diversi e tante incrostazioni, accumulate negli anni precedenti, si andavano sfaldando.

Mi era sempre più nitida la distinzione tra messaggio evangelico e norme contingenti, introdotte nel corso dei secoli, sacralizzate e perpetuate, solo perché nessuno osava metterle in discussione, pena sensi di colpa o esemplari sanzioni da parte delle gerarchie, sempre sollecite a mantenere intatto quanto sacralizzato.

Mi rendevo anche conto della differenza tra la vocazione a una vita dedicata in modo incondizionato al bene degli altri e la via del culto, alla quale non ero mai stato propenso.

Per superare il crescente disagio, mi ero immerso con tanto entusiasmo nello studio e solo la domenica mi concedevo diversivi, esplorando la città o assistendo a qualche spettacolo.

 

Quella domenica avevo assistito alla proiezione pomeridiana di Madame Butterfly - in versione cinematografica - in una saletta in via della Traspontina.

Non avevo mai visto quell’opera di Puccini, ma l’ambiente giapponese mi aveva sempre suscitato un certo fascino.

 

La suggestione della casetta in cima alla collina, tra il verde e i fiori, con pareti discrete che vanno e vengono a prova, a norma che vi giova e non ostacolano la visione dell’orizzonte, i tramonti e le aurore d’incanto scossero in me un equilibrio col tempo divenuto sempre più instabile.

Come a voler rendere più esplicito il messaggio, in quello scenario un’adolescente ingannata, travolta dall’illusione di un amore struggente, moriva proiettando in avanti un bambino:

 

Non saperlo mai: per te, per i tuoi puri

occhi, muor Butterfly,

perché tu possa andar di là dal mare

senza che ti rimorda, ai dì maturi,

il materno abbandono.

 

Rimase in me un profondo senso d’inquietudine, come se una struttura tenuta faticosamente in piedi scricchiolasse.

 

Uscendo dalla sala mi sentii investito dall’aria tiepida di un sereno tramonto d’aprile inoltrato; c’era in me qualcosa di leggero, come un risveglio di vita, mentre con una sensazione di dolcezza, mi ritrovai a canticchiare:

 

Bimba dagli occhi pieni di malia, ora sei tutta mia.

 

Girai l’angolo di via Conciliazione, in direzione di Castel Sant’Angelo e sostai in riva al Tevere, poco prima del ponte.

Il fascino dell’acqua catturò la mia attenzione; vidi, su quella superficie increspata, il riflesso tremolante dei raggi del sole e sollevai lo sguardo.

 

Come in una rivelazione, il cielo mi apparve particolarmente luminoso e i colori del tramonto, col loro rosso intenso, sul quale si stagliava la cupola di San Pietro, mi coinvolsero, come da anni più non mi accadeva.

Rividi il cielo dell’infanzia, nel quale potevo nuovamente immergermi, per continuare a sognare.

Mi fermai estatico a guardare, poi m’incamminai seguendo il Lungotevere per continuare ad ammirare lo spettacolo; superato rapidamente l’ospedale Santo Spirito, da piazza della Rovere, m’inerpicai per la rampa del Sangallo, su verso il Gianicolo.

 

Arrancavo investito dalla luce rosea del tramonto, quando, come un incubo, una tetra visione venne a turbare la magia di quel momento: come in una progressiva inesorabile logica, la massiccia muraglia del Collegio Urbaniano, con le tozze finestre protette da pesanti inferriate, lentamente emergeva, sbarrandomi il cammino verso l’orizzonte; dietro scorgevo cime di alberi svettanti che continuavano a testimoniare una vita prigioniera, anch’essa, fra quelle mura massicce.

Mi sentii invaso da una profonda angoscia, in contrasto con la sensazione di libertà che appena affiorava, come se improvvisamente tutto si rimettesse in discussione.

Fu solo un momento; presi coscienza che mi trovavo fuori dalle mura, a osservare dall’esterno, con una capacità di critica e con occhi ormai diversi.

Mi affrettai ad aggirare quel tetro edificio, come per sfuggire a un incubo, e mi ritrovai ben presto davanti a una struttura più rassicurante, vista come rifugio, non più come segregazione: il convento di Sant’Onofrio dei Padri Francescani.

In compagnia del Tasso, superai l’angolo, costeggiando il muro che digradava, fino a scomparire, poi abbandonai la strada proseguendo per la rampa della Quercia.

Forse la stanchezza o forse la suggestione del mio compagno di cammino, mi spinse a sostare per qualche momento su quelle pietre, sulle quali egli stesso sedeva sconsolato, nell’attesa di un’incoronazione che non sarebbe mai arrivata.

Continuai con più lena il cammino, finché giunsi in alto, dove lo spazio non era più limitato da malinconici muri: balaustrate solide e discrete offrivano un appoggio, per contemplare un orizzonte ridivenuto infinito, mentre la brezza della sera m’invitava ad aprirmi alla speranza in un progetto di vita che fosse interamente mio.

Di fronte, le cime degli alberi tessevano una delicata trina, sullo sfondo rosso del tramonto; armoniosamente discreta, sulla destra, la cupola di San Pietro, quasi a voler proporre il sentimento religioso in una perfetta simbiosi con una natura benevola.

 

Rividi il professore André Godin, che mi parlava con entusiasmo della facoltà di psicologia dell’Università di Lovanio, rividi le ricerche fatte con lui nel suo laboratorio, ripensai a una vita ancora da inventare e da vivere, seguendo le mie esigenze più profonde; mi sentii, dopo tanti anni, nuovamente immerso in una natura amica alla quale potevo fiduciosamente abbandonarmi.

 

 

Con tristezza - come per ogni distacco - pensai alla mia adolescenza, che in quel momento moriva, portando con sé brandelli d’illusioni, vissute intensamente, anche se non dettate dalle mie intime esigenze …

 

Rimasi in quell’estasi finché l’ultimo chiarore scomparve.

Poi m’incamminai verso il piazzale del Faro per guardare ancora la città divenuta gioiosa, vaiolata d’insegne; mi soffermai con lo sguardo assente, sovrapponendo a essa la visione di luce e d’incanto che avevo ancora negli occhi, come in un tripudio in cui la natura e la vita si fondevano in una sublime armonia.

 

Lentamente ridiscesi verso il Lungotevere, lo percorsi per un lungo tratto fino all’imbocco di via Pompeo Magno e rientrai nel mio pensionato.

A letto tornai ancora indietro negli anni, mentre nuove prospettive andavano affiorando.

Come in una palingenesi, rividi la mia vita con altri occhi; continuai a vagare, finché il sonno non pose fine ai miei pensieri.

Il nuovo giorno mi avrebbe ancora portato un’aurora e con essa un nuovo progetto di vita a cui pensare.

 

*      *      *

 

Ricordi lontani, sbiaditi nel tempo!

 

Oltre mezzo secolo è trascorso e tanta acqua è passata sotto i ponti di quel Tevere.

Un treno, sferragliando fra cumuli di neve, come in un sogno, mi porterà verso altri luoghi. Altre lingue, altri costumi, altro genere di studi a me più confacenti: Lovanio, Magonza, Parigi, Vienna, Londra, poi un entusiastico rientro, pieno di speranze e di attese.

 

I decenni passeranno, le illusioni si alterneranno agli sconforti, fino a cedere il posto a una velata mestizia che lentamente mi proietterà in una dimensione diversa.

4.    Il bisogno di darsi spiegazioni

 

La formazione e l’ampliamento del patrimonio mentale e nello stesso tempo il potere di astrazione determinano nell’uomo una sempre maggiore capacità di gestire le esperienze, di stabilire connessioni, di anticipare il futuro e di interrogarsi sul passato.

 

La possibilità di creare simboli permette di comunicare ai propri simili le esperienze e le conoscenze acquisite.

Si aprono nuovi orizzonti, non più circoscritti ai dati sensoriali immediati.

A.  Attribuzioni di causalità

 

L’affiorare della razionalità porta a indagare sulle cause di quanto avviene, anche se non sempre i nessi ipotizzati corrispondono alla realtà.

Realizzare un'esperienza significa stabilire, conservare nel proprio patrimonio mentale e poter trasmettere acquisizioni di nessi di causalità tra gli eventi: facendo quest'azione ottengo questo risultato.

Generalizzando: da questa causa deriva quest'effetto.

 

È quindi fondamentale per l'uomo, al fine del suo adattamento alla realtà e della sopravvivenza, il bisogno di darsi una qualche spiegazione dei nessi fra gli eventi, in modo da poterli controllare o almeno di avere l'illusione di riuscire a farlo.

 

Che le spiegazioni siano vere o presunte dipende dai tanti fattori, ai quali accenneremo.



 

Il pensiero magico

 

Il pensiero magico è una forma di processo cognitivo, ancora rudimentale, in cui un effetto è attribuito a una causa non idonea a determinarlo o l'effetto sperato si attende da essa.

Ha origine nell'illusione di poter incidere sulla realtà immaginando l'esistenza di un rapporto tra due fenomeni, anche se i nessi di causalità attribuiti siano del tutto inesistenti e illogici.

 

Sebbene si riscontri in modo abituale nella prima infanzia e nelle culture primitive, aspetti di esso permangono anche in persone appartenenti a società considerate evolute.

Il pensiero magico nel bambino

 

Nel bambino, il pensiero magico è una forma mentale che contraddistingue il suo funzionamento cognitivo e cede gradualmente il posto alla sfera del pensiero basato su nessi di causalità più aderenti alla realtà e sull'uso corretto dei simboli.

 

Gradualmente, con lo sviluppo della razionalità, i simboli possono essere elaborati autonomamente, senza che si attribuisca, in modo automatico, un nesso di causalità a due eventi concomitanti. Il pensiero magico si forma nell'area intermedia e l'accostamento fra due eventi può ancora portare ad attribuire un rapporto di dipendenza.

Per citare un esempio, se si picchia su un tavolo e contemporaneamente si fa cadere un dolce dall'alto, nel bambino si forma la convinzione che la caduta del dolce è causata dal picchiare e ripeterà il gesto nella speranza che accada l'effetto in precedenza osservato.



 

Il pensiero magico nelle culture primitive

 

Nelle culture primitive, non essendo ancora del tutto chiari i nessi reali di causalità che regolano fra loro i fenomeni, se ne creano ipotetici e si fa strada l'idea di poterli usare per influenzare la realtà secondo i propri pensieri e desideri; ciò porta alla formazione delle credenze magiche nel loro tessuto sociale.

 

Volendo citare qualche esempio, a livello d'organizzazione spaziale, spesso si crea una coincidenza tra il tutto e una qualche sua parte, anche se separata e distante; un esempio è costituito dalla convinzione che, agendo su una parte di una persona, come un capello, o su qualcosa appartenuta a essa, come un indumento, ne possa seguire un effetto sull'intera persona: il capello o l'indumento possono simboleggiare la persona alla quale appartengono, anche se non sono la persona.

Altro aspetto è la rottura della logica temporale, come avviene, ad esempio, in alcune tribù primitive che pensano di poter guarire una ferita eseguendo particolari riti sull'arma che l'ha provocata.

 

Il pensiero magico si mostra impermeabile all'esperienza; sopravvive nonostante gli insuccessi, ai quali è data una qualche giustificazione: sono attribuiti all'intervento di altri fattori, come un errore nell'eseguire il rito, un volere superiore, una contromagia ...

Dando per scontati i nessi e senza curarsi di verificare, non vi è alcuna possibilità di modifica o di progresso.

 

Questi esempi estremi potrebbero far pensare a un'incompatibilità del pensiero magico con la logica dominante nella nostra cultura.



 

Persistenza del pensiero magico nell'adulto civilizzato

 

Realisticamente, dobbiamo prendere atto che pensiero magico e pensiero razionale, anche nell'adulto civilizzato, coesistono come due forme di pensiero in costante interazione; la predisposizione al pensiero magico non abbandona mai del tutto la mente umana.

Tracce di esso si riscontrano facilmente nella vita quotidiana, sebbene in modo diverso, in funzione delle circostanze e delle caratteristiche individuali. Esso può influenzare le scelte o caratterizzare l'intera vita di alcune persone.

 

Non vorremmo essere irriverenti, ma cosa pensare di tante forme di culto di reliquie in cui, rendendo omaggio a qualcosa di appartenuto al santo, si pensa di venerare il santo stesso o di tante forme di devozioni popolari nelle quali, dalla recita, per un certo numero di volte, di determinate formule (preghiere), si spera di ottenere la grazia desiderata?

Siamo proprio sicuri che, alla base di tanti riti tramandati, non vi sia l'influenza di questo tipo di pensiero?

Essi si formano e resistono nonostante le numerose precisazioni e i distinguo da parte delle autorità ufficiali e - soprattutto! - degli studiosi.

 

I fattori che agevolano questo tipo di pensiero sono di vario ordine.

 

In primo luogo è da considerare il ruolo dell'inconscio.

 

La pretesa supremazia della ragione nell'uomo adulto, anche se culturalmente evoluto, è una pura illusione.

 

Solo una parte limitata della nostra vita psichica si svolge a livello cosciente; la nostra pretesa razionalità è molto influenzata da fattori inconsci - non regolati dalla razionalità - ed è spesso circoscritta all'elaborazione di giustificazioni plausibili, a pensieri o comportamenti a essa estranei.

 

Ad accentuare l'influenza dell'inconscio, contribuiscono fattori di ordine emotivo.

Se l'individuo si sente minacciato da un pericolo - reale, presunto o simbolico - s'innescano reazioni emotive che riducono notevolmente le fragili capacità razionali.

 

A livello individuale, vi sono elementi caratteriali che facilitano il pensiero magico, sia pure in forma spesso larvata.

 

Alla presenza di questi tratti, ciascuno, anche se portato alla ricerca di nessi causali pertinenti, potrebbe indulgere a spiegazioni fantasiose per giustificare nessi inesistenti, sia avvalorando credenze tramandate, sia con ipotetici motivi creati per l'occasione.

Lo studioso potrebbe far ricorso a interventi consoni col suo retroterra culturale.

Il credente devoto penserà a grazie ricevute dal santo invocato in conseguenza dei riti eseguiti o - al contrario - a interventi diabolici per mettere alla prova la sua fede.

L'uomo della strada attingerà all'ampio repertorio delle ataviche superstizioni popolari. Attribuirà gli eventi indesiderati a fatture, malocchio, negatività o altri influssi del genere; cercherà di neutralizzarli facendo ricorso alla vasta gamma di pratiche magiche: fiocchi rossi, corni, ferri di cavallo o ricorrendo a persone dotate - a suo giudizio - di poteri particolari.  Altre volte si limita a evitare di dire o di fare qualcosa ... per scaramanzia.

 

È d’obbligo, però, precisare che il problema non può essere liquidato in modo sbrigativo, anche se l’attuale tendenza razionalizzante del pensiero ci spinge in questa direzione.

 

Anticipando un argomento che affronteremo in seguito, potremmo chiederci se, alla base di tante pratiche, non si possano trovare elementi originati da concetti che possiamo solo intuire. Nella nostra logica razionale spesso mancano - o non sono adeguate - le parole atte a esprimerli; da qui la necessità di ricorrere, sia pure inconsapevolmente, a immagini o a riti nei quali è difficile mantenere costantemente desto il nesso col loro significato sottostante.

 

Nella pratica liturgica, ad esempio, a volte, si potrebbe scorgere l’immersione in uno spazio simbolico, un mondo parallelo alla vita quotidiana, non molto dissimile da quanto avviene nelle visioni apocalittiche.

Nello stesso tempo, il rito religioso dovrebbe consistere in un momento di riflessione finalizzata alla modifica delle proprie disposizioni interiori: un invito costante a migliorare la nostra vita, prendendo lo spunto da quello che il rito dovrebbe far rivivere.

Idealmente, non dovrebbe essere vissuto né come un puro simbolismo né come una pratica alla quale attribuire un potere magico; si riferisce, in qualche modo, a una realtà trascendente e costituisce un’esperienza particolare, come linguaggio che serve a mettere in rapporto con la trascendenza stessa.

Nella pratica, però, si perde facilmente di vista il suo vero significato e si slitta semplicisticamente in pratiche formali, non dissimili da quelle considerate magiche; subentra, poi, la giustificazione attribuendo un valore propiziatorio, come mezzo per ottenere l’intervento di una divinità anacronisticamente antropomorfizzata.

Altre volte si pretende di trarre conseguenze logiche da pratiche o intuizioni che esulano da questa categoria.

 

L’incongruenza sorge proprio nell’attribuire al rito un valore in se stesso, perdendo di vista che si tratta solo di un modo di entrare in contatto con una realtà misteriosa che sfugge a ogni possibile comprensione razionale.

 

Questi accenni, ci fanno intuire come siamo in presenza di concetti difficili da cogliere perché lontani dalla nostra comune logica.



La scienza e la ricerca dei nessi causali

 

Con la sperimentazione, preconizzata da Francis Bacon e posta da Galileo Galilei alla base della ricerca scientifica, è iniziata una rivoluzione nel campo delle conoscenze.

Con la sua applicazione sistematica, il mondo non sembrava più in balia di forze misteriose: tutto appariva retto da una logica e la mente umana poteva prendere le distanze dalle spiegazioni magiche.

 

L'uso della ragione e l'apporto della scienza furono viste come base dell'evoluzione e del progresso sociale, ostacolato, fino a quel tempo, dall'ignoranza e dalla superstizione.

 

Il risveglio - come tutti i risvegli - inebriò al punto da far perdere, a volte, la coscienza dei limiti; dava l'illusione di trovare la spiegazione di tutto e creare una sensazione di onnipotenza; la fantasia poteva spaziare dall'approdo a Bensalem, la mitica città governata da scienziati tecnocrati, all'intronizzazione della dea ragione nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi.

 

Fu un periodo di profondi cambiamenti nel modo di pensare e di vivere.

 

Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.

Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che pensa per me...io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare. Gli interessati tutori, i più scaltri, i detentori del potere imprigionano i vili e i pigri in una «carrozzina da bambini» paventando loro i rischi che si corrono a voler camminare da soli. Non s'impara a camminare senza cadere, ma questo li terrorizza, per cui rimarranno infanti per tutta la loro vita.

                                                                  (I. Kant, Critica della ragion pura)

 

Si parlò di âge des lumière (età dei lumi) anche se l'evoluzione seguita ha lasciato molte zone d'ombra, sul momento percepite come idee progressiste.

 

Oltre il limite della logica umana

 

Il tempo proseguirà il suo cammino, incurante dei fuochi fatui e farà scrivere a Einstein: Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato (lettera del 4 dicembre 1926, a Max Born). A buttare acqua sul fuoco degli entusiasmi contribuiranno altri, come Karl Popper, che farà notare come la peculiarità del metodo scientifico e dei modelli matematici consista nella possibilità di falsificare una teoria, non nella presunzione di "verificarla".

Negli schemi interpretativi, noi possiamo far leva solo sul prodotto della nostra mente, a sua volta sensibilmente influenzata da molteplici fattori, non ultimo il consenso culturale.

 

Si potrebbe tener d'occhio l'analogia col pensiero sviluppato, in campo religioso, dalla teologia negativa: noi possiamo solo conoscere quello che Dio non è, non capire quello che è.

Agostino d'Ippona, infatti, ammoniva:

 

Si enim quod vis dicere, si cepisti, non est Deus, si comprehendere potuisti, aliud pro Deo comprehendist (Se infatti ciò che vuoi dire lo hai capito, non è Dio. Se sei stato capace di capirlo, hai compreso una realtà diversa da quella di Dio). (Sermone 52)

 

Gregorio di Nissa, in La vita di Mosè, precisava:

 

Ogni concetto formato dall'intelletto nel tentativo di cogliere e discernere la natura divina, non arriva se non a foggiarsi un idolo, non a far conoscere Dio.

 

Andando oltre, anche Tommaso d'Aquino faceva osservare:

… siccome di Dio non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è, non possiamo indagare come Egli sia, ma piuttosto come non sia.  (Summa theologiae, I, q. 3, prologo)

 

Gli ultimi due secoli hanno fatto assistere al crollo di tanti miti.

La scienza ha preso atto che i parametri interpretativi della fisica classica non sono più sufficienti a spiegare tutti i fenomeni.  Anche in campo puramente spaziale, finché l'esplorazione era circoscritta alle esigenze vitali dell'uomo, la geometria euclidea ha potuto dare valide risposte. Quando si è voluto andare oltre, tentando di esplorare l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande, ci si è resi conto che la realtà non può essere imbrigliata nella logica dello spazio tridimensionale e che il limite posto dal quinto postulato di Euclide non è invalicabile.

 

Pur restando nell'ambito delle cause seconde, non tutti saranno appagati da semplicistiche ipotesi, anche se verosimili.

Inoltre, resterà sempre il bisogno di andare oltre, per dare un senso alle radici più profonde del proprio essere.

 

Sorgerà spontanea la riflessione su quanto Platone fa dire a Socrate nel Fedone. Riferendosi alle spiegazioni di Anassagora, basate su puri meccanismi materiali, fino a considerare l'agire umano come effetto di movimenti di muscoli e di ossa, egli osserva:

 

Ah! Vi assicuro che queste ossa e questi muscoli a quest'ora sarebbero già a Megara o in Beozia, che lì sarebbero state certo assai meglio, se non avessi, invece, ritenuto più giusto e più bello, anziché tagliare la corda e fuggire, pagare alla patria qualunque pena mi avesse inflitto. Chiamare cause tutte queste cose, mi sembra proprio un'assurdità, ...     

 

 

Chiarire il concatenarsi delle cause seconde potrà risolvere il rapporto con la causa prima che è all'origine di esse?

 

Profonde crisi esistenziali hanno spinto a prendere atto che non tutto è riducibile all'ambito della ragione e non tutto è esplorabile attraverso la ricerca scientifica.

Nascono correnti di filosofia che hanno in comune il superamento del positivismo e il riconoscimento del primato della coscienza nell'interpretazione della realtà.

 

Albert Einstein, che pur non era carente nell’uso della ragione, scrisse che la mente intuitiva è un dono sacro. La mente razionale è un fedele servo…. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono.

In realtà il pensiero creativo è una modalità presente fin da bambini; si sviluppa in parallelo con vita emozionale e sociale, ma se non è ben valorizzato, si disapprende, lasciando più spazio al pensiero logico-razionale. Perdiamo di vista che le emozioni - la parte più primitiva dell’essere umano - sono il motore della nostra immaginazione e di conseguenza della nostra creatività.

 

Bergson, pur riconoscendo la funzione dell'intelligenza come strumento di conoscenza, si rifiuta di pensare che questo debba essere l'unico strumento del sapere; supera il positivismo ma nello stesso tempo la concezione spiritualista tradizionale.

 

Lo psichiatra filosofo Ignacio Matte-Blanco (Santiago del Cile, 1908 - Roma, 1995), va oltre. Partendo dal concetto di inconscio di Freud e dall'esperienza clinica maturata attraverso l'analisi di pazienti schizofrenici, parla di bi-logica alla base della conoscenza e dei comportamenti umani: la logica del pensiero cosciente. sulla quale si fonda il sapere scientifico, ancorata ai principi di identità, di non contraddizione e di causalità; la logica dell'inconscio che prescinde da essi.

Secondo i casi, predomina l’una o l’altra delle due.

Il secondo tipo di logica, influenza il comportamento e la vita cosciente, ma è difficilmente esplorabile attraverso la logica razionale; siamo portati a rifiutare, infatti, ciò che reputiamo non compatibile con le leggi sin ora conosciute; inoltre, non esiste alcuna forma di linguaggio atto a comunicare i suoi contenuti.

L’emotività e le intuizioni rientrano in questa categoria.

L’abbandono dei parametri di riferimento esistenti per crearne altri che inglobino le intuizioni emerse richiederebbe menti geniali; solo il genio e il mistico riuscirebbero a cogliere qualcosa.

Curiosamente, il pensiero di Matte Blanco, sebbene presentato in modo ben articolato nelle sue varie opere, ha trovato un’accoglienza tiepida nell’ambiente di provenienza, la psichiatria, che lo giudica piuttosto astruso; ha destato, invece, maggiore interesse in altri ambiti culturali quali la linguistica, la critica letteraria, l'estetica e l'antropologia.

 

Il romanticismo farà riaffiorare il mondo sommerso dei sentimenti.  Riemergerà l’osservazione di Blaise Pascal:

 

Le cœur a ses raisons que la raison ne connaît point (Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto).

 

Nell’ambito della psicologia, negli ultimi decenni si parla sempre più di intelligenza emotiva; Daniel Goleman afferma:

 

Abbiamo due menti, una che pensa, l’altra che sente. Queste due modalità della conoscenza, così fondamentalmente diverse, interagiscono per costruire la nostra vita mentale.

 

*      *      *

 

La frontiera tra il mondo conosciuto e il divino si sposterà sempre più, fino al limite invalicabile del mistero, da cui l'esistenza umana si sentirà avvolta: l'aspirazione a immergersi nell'infinito, per realizzare pienamente il destino al quale ci si sente chiamati.

Si parlerà di sentimento oceanico, immagine che evoca il bisogno di fondersi con l'universo per appagare un'esigenza ancestrale, all'origine di ogni sentimento religioso; bisogno che riecheggia il Fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te (ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te) di cui parla Agostino d'Ippona.

 

Anche in questo, l'uomo di scienza tenterà la ricerca di spiegazioni; ipotizzerà un sentimento egoico primordiale, sedimentazione di esperienze infantili del rapporto totalizzante e indifferenziato col seno materno ma, a prescindere dalla loro fondatezza, si tratterebbe sempre del concatenarsi delle cause seconde.

 

In campo letterario si farà strada il poeta veggente, artista solitario che scava nell'interiorità umana e nel mistero dell'ignoto, che vede e sente mondi arcani e invisibili in cui immergersi.

Ci si renderà conto dell'esistenza di un mondo avvolto nel mistero, non accessibile alla ragione: è illusoria la pretesa di conoscere tutti i nessi causali.

 

Riemerge il monito che Dante mette in bocca a Virgilio:

 

State contente umane genti al quia, ...

B.  I nessi causali tradotti nei miti

 

In presenza di realtà misteriose, nei tempi antichi era frequente l’elaborazione di miti per dare una qualche spiegazione; in essi erano espresse verità profonde usando immagini, sia pure fantasiose, comprensibili all’uomo comune.

 

Anche nella Bibbia sono presenti miti per spiegare la presenza di realtà inaccessibili alla ragione umana. Fra le tante, la presenza del male, incompatibile con la bontà di Dio; un interrogativo che affiora fin dalla silenziosa comparsa dell’uomo sulla terra e che lo accompagnerà nel corso della sua storia.

Nei miti di vari popoli, l’ente supremo, in origine, crea l’uomo immortale, in un mondo senza male e in condizioni paradisiache; a un certo momento, l’ordine è turbato e si giunge alla condizione umana di fatto esistente: l’ente supremo punisce l’uomo che, divenuto mortale, è costretto a lottare per la propria sopravvivenza.

 

Il mito biblico rielabora contenuti preesistenti in altre culture e le fonde con immagini tratte dalle saghe dei popoli presso i quali gli ebrei erano stati deportati.

 

S’intravede sullo sfondo Gilgamésh, l’inquieto eroe sumerico, collocato dalla leggenda come re di Uruk, intorno al 2700 a.C.  Sconvolto alla vista dell’amico Enkìdu privo di vita, egli corre verso la dimora del suo antenato Utanapishtìm, salvato dal diluvio e reso immortale, per avere da lui il segreto dell'immortalità.

L’antenato si mostra incapace di soddisfare la richiesta, ma gli indica una pianta che cresce in fondo al mare, l’albero della giovinezza. Gilgamésh riesce a raccoglierla, ma nel viaggio di ritorno

 

…  un serpente annusò la fragranza della pianta,

si avvicinò [silenziosamente] e prese la pianta;

nel momento in cui esso la toccò, perse la sua vecchia pelle.

Gilgamesh quel giorno sedette e pianse, … (Epopea di Gilgamesh, XI, 285-290)

 

Nel racconto biblico ne sono riprese alcune immagini.

 

Potremmo tentare una decodifica del racconto con un linguaggio rispondente al modo di pensare di oggi.

 

In Adamo è raffigurata l’intera umanità, destinata a progredire nel sapere e nell’esperienza, svincolata dalla materia e con la capacità di orientare liberamente i propri comportamenti,

Il piano della Provvidenza divina vorrebbe che la scelta sia costantemente fatta in funzione del bene comune, ma lo sguardo, ancora miope e offuscato è incapace di guardare lontano, oltre i suoi interessi del momento; non regge alla nuova condizione e prevarica, sovvertendo le leggi della natura: si rivolge contro i suoi simili e fa violenza al creato per piegarlo a bisogni egoistici immediati

 

Il serpente tentatore insinua: Si aprirebbero i vostri occhi e sareste simili a Dio conoscendo il bene e il male.

Gli occhi si aprono, vuole essere l’uomo a sancire, al pari di Dio, i limiti tra il bene e il male, sovvertendo le leggi della natura.

 

La capacità di trasmettere gli schemi di comportamento acquisiti porta a tramandare anche modelli non più orientati al bene di tutti: potrebbe consistere in questo il peccato originale che si trasmette e condiziona il comportamento dell’uomo.

 

Anche alla minaccia “morirete”, come vedremo meglio proseguendo il cammino, potremmo dare, forse, un significato: Se agirete in modo egoistico, se farete tutto solo per voi, con la fine della vostra vita finirà tutto, non lascerete nulla, morirà tutto con voi.

 

È questa una lettura del racconto biblico in chiave antropologica; l'aspetto teologico potrebbe tener conto di altri significati che non intendiamo affrontare.

 

Che l'uomo senza il peccato originale sia storicamente esistito o che sia un ideale dato all'umanità; che l'essere soggetto alla morte sia una punizione dovuta al peccato originale o che faccia parte della natura umana, come asseriva Pelagio e tanti altri, non rientra nelle nostre competenze ipotizzarlo.