La rigidità

 

Negli esseri umani, come nel resto del mondo animale, l’azione segue un bisogno, spontaneo o indotto.

Caratteristica umana è la capacità di complicarsi la vita creandosi bisogni o doveri privi di senso.

Lo aveva in origine, come il chiedere due whiskies quando gli amici erano in due, ma non lo ha più quando si è rimasti soli.

Dare un senso alle nostre azioni significherebbe ampliare l’orizzonte e vederle in un contesto globale che potrebbe essere cambiato, alla luce degli obiettivi più vasti che vorremmo perseguire.

Ciò facendo, molti riti verrebbero a cadere perché ci apparirebbero inutili fronzoli che appesantiscono la vita.

Ma questo ci costringerebbe a pensare, lavoro faticoso che non sempre ci riesce congeniale e compatibile con la nostra indolenza.

Volendo evitare la fatica di riflettere, restringiamo l’attenzione sul dettaglio isolato dal contesto; anche se la conclusione risulta incoerente. Oppure perseveriamo in un comportamento abitudinario che ha perduto ogni suo senso.

Nel largo Taormina,a Catania, davanti alla caserma Sammaruga, prima che si costruissero gli attuali edifici, vi era uno spiazzo alberato con sedili in ferro, accanto ai quali ogni giorno due militari montavano la guardia.

Un giovane ufficiale, cultore di ricerche storiche, chiese ai più anziani il motivo di tanto onore reso a quei sedili, ma nessuno fu in grado di dare una risposta.

Volendo andare a fondo, iniziò ricerche di archivio, andando a ritroso, nella speranza di trovare una qualche motivazione; notò che la consuetudine era radicata nel tempo, senza che fosse mai motivata.

Finalmente dopo mesi di ricerche, si imbatté nell’ordine del giorno iniziale, risalente a trent’anni prima, che così recitava:

«Due militari monteranno la guardia ai sedili verniciati di fresco per evitare che i commilitoni vi si siedano.»

L’ufficiale di turno il giorno seguente aveva frettolosamente ricopiato l’ordine del giorno senza badare alla motivazione e così avevano fatto gli altri ufficiali che si erano susseguiti nell’arco dei trent’anni.

 

Quando la rigidità tocca il sociale …
 

Quanto avviene nei singoli individui può avvenire a livello sociale, agevolando la formazione di rituali che potevano aver avuto un senso inizialmente, ma che poi lo hanno perduto.

Eppure spesso si persevera solo perché nessuno intende prendersi la briga di voler verificare l’opportunità di mantenere in vita il rito.

È penoso ammetterlo. Ma quanti riti religiosi, che in origine avevano un senso profondo, continuano a mantenersi in vita, anche se appaiono svuotati del loro significato originario?

Alla rigidità mentale si associa la preoccupazione delle eventuali critiche, alle quali ci si esporrebbe nel voler proporre delle innovazioni.

Si è convinti che, lasciando andare le cose come sono sempre andate, si vada sul sicuro.

La strada maestra è così aperta perché vi faccia il suo ingresso trionfale la burocrazia.

Quanto segue sembrerebbe inverosimile se non fosse realmente accaduto.

Fra la documentazione che dovevamo presentare a Palermo ad un assessorato regionale, era richiesto il certificato antimafia, rilasciato dalla prefettura di Catania; la prefettura stessa avrebbe inviato direttamente il certificato richiesto all’assesso-rato; noi dovevamo limitarci ad allegare la copia della nostra richiesta.

Dopo alcuni mesi di attesa (i tempi sono questi) ci convocano a Palermo per farci notare che la copia della nostra richiesta, allegata al resto della documentazione, non era stata timbrata dalla prefettura di Catania.

Ci precipitiamo in prefettura chiedendo il timbro a cui era legato l’andamento della pratica per la quale fremevamo.

Il funzionario addetto ci fa notare che dopo mesi la nostra richiesta era stata archiviata ed il riscontro sarebbe stato laborioso; si presta, però, a verificare l’esito della richiesta stessa.

Constatando che la certificazione richiesta era stata da tempo spedita all’assessorato, ci invita a tornarvi per comunicare l’avvenuta spedizione e a pregarli di fare ricerche nel loro protocollo, poiché il problema era superato.

Torniamo a Palermo comunicando quanto il funzionario della prefettura di Catania aveva detto.

Il funzionario dell’assessorato di Palermo non mostra di scomporsi e con tutta calma ci risponde:

  • Sì, lo sappiamo, il documento ci è pervenuto ed è qui, ma noi dobbiamo allegare la richiesta da voi fatta, col timbro della prefettura di Catania.

  • Scusate, se il documento vi è pervenuto, vuol dire che la richiesta è stata fatta, anche se manca il timbro.

  • Comprendiamo, ma la circolare dice che voi dovete presentare la richiesta timbrata e noi dobbiamo attenerci alla circolare; tornate a Catania per farvi timbrare la richiesta.

Superfluo riferire le reazioni furibonde del funzionario di Catania all’assurdità della pretesa del collega di Palermo.

 

… la burocrazia regna sovrana …
 

Un ottimo sistema per tenere la testa degli impiegati pubblici a riposo (dispensandoli dal pensare, perché non si strapazzino) è offerto dalla burocrazia.

Certo, ci son voluti secoli perché questo splendido ritrovato si perfezionasse; quale altro sistema potrebbe complicare meglio la vita dei comuni mortali?

Inoltre, i tempi che le pratiche debbono compiere in questo percorso ad ostacoli ci danno una qualche idea del concetto di eternità.

Ma lasciamo per un momento i poveri e stressati impiegati per dare una sbirciata alla nostra gobba, anche col rischio di diventare strabici, essendo posta di dietro.

Quante volte chiediamo agli altri cose inutili, solo per indolenza e per il rifiuto a ragionare?

Certo, non sempre è pura indolenza, potrebbero esserci a monte motivi più nobili: forse ci si crea l’illusione di essere importanti assumendo un sadico atteggiamento vessatorio nei riguardi di chi ha bisogno di noi; forse questo costituisce una rivalsa nelle nostre frustrazioni; forse vi sono altri motivi ancora.

Una cosa è certa: nel nostro piccolo, anche noi riusciamo ed essere spesso un po’ burocrati.

Da ragazzo, in seminario, venivo a volte inviato con un gruppo di coetanei, ad assistere come ministrante alla messa pontificale, celebrata dall’arcivescovo in cattedrale, in occasione di festività particolarmente solenni.

Si trattava di un compito particolarmente complesso, al quale venivamo accuratamente preparati con ripetute prove, sotto la guida del meticoloso cerimoniere mons. Famoso.

Un particolare mi incuriosiva.

Al momento dell’offertorio, uno di noi doveva portare un vassoietto con due ostie, le ampolline contenenti il vino e l’acqua e un bicchierino. Nell’atto della presentazione, dovevamo mangiare una delle ostie e bere un po’ di vino versato in un bicchierino che faceva parte del corredo.

Il rito mi appariva strano e un giorno, armato di coraggio, chiesi al compassato cerimoniere quale fosse il significato religioso recondito.

Il dotto e documentato monsignore mi spiegò, con dovizia di particolari, come nel Medioevo fossero frequenti gli attentati ai vescovi, orditi negli stessi ambienti ecclesiastici; una delle modalità più frequenti era il veleno, somministrato proprio attraverso il pane o il vino che il vescovo avrebbe mangiato nella celebrazione della messa.

Non c’è da stupirsi, se si considera un fatto di cronaca recente: in un paese etneo, il sacrista tentò di avvelenare il parroco con questa procedura.

Nei tempi passati, i vescovi, più previdenti del nostro buon parroco, pensavano di scongiurare il rischio facendo assaggiare la materia del sacramento agli accoliti che la preparavano.

I secoli sono trascorsi, molte cose sono cambiate, ma il rito, non certo di natura religiosa, era rimasto immutato.

Mi auguro che nell’opera di rinnovamento del dopo concilio anche questo rituale residuo sia stato eliminato, ma fin quando io ero ragazzo sussisteva.

 

… e può toccare anche la religiosità
 

Una certa rigidità fa parte delle caratteristiche umane e si accentua in presenza di elementi avvolti in un’atmosfera di mistero, come in tutto quello che riguarda il sacro.

Si ha spesso l’impressione che nelle tradizioni non si voglia cambiare nulla e che ogni minima mutazione sia vista come un vero e proprio tradimento.

È penoso ammetterlo. Ma quanti riti religiosi, che in origine avevano un senso profondo, continuano a mantenersi in vita, anche se appaiono svuotati del loro significato originario?

E che dire di riti che di religioso non hanno proprio nulla?

Un contadino, dopo aver accudito agli animali, nel pomeriggio si reca al comune per chiedere un certificato.

Dopo aver percorso corridoi deserti, incontra finalmente un usciere al quale espone la sua necessità.

Il brav’uomo lo ascolta benevolmente e gli fa notare:

  • Vede, per queste cose lei deve venire di mattina.

  • Perché, di pomeriggio gli impiegati non lavorano?

  • No, è di mattina che non lavorano. Di pomeriggio nemmeno vengono.

* * *

Un milanese si intrattiene a parlare con un romano:

  • Sai cos’è Roma?

  • … e ‘mbe?

  • È una grande città, con delle grandi strade, con dei grandi palazzi che si chiamano ministeri, in cui ci sono delle grandi scalinate dove ogni giorno si incrociano gli impiegati che arrivano in ritardo con quelli che escono in anticipo.

  • E tu sai qual è la differenza tra i romani antichi e quelli moderni?

  • Quale?

  • I romani antichi facevano lavorare gli schiavi, quelli moderni fanno lavorare i milanesi.

* * *

Mi ricordai di questa barzelletta mentre ero studente in Belgio, quando con sorpresa e ilarità notai che per dire a qualcuno: «Non fare lo sfaticato», gli dicevano:«Non fare il milanese!»