2009 - I cosci ’i Donna Grazia
I cosci ’i Donna Grazia
Luigi Minio
Era l’ultimo decennio del 1800 e in Italia si respirava ancora il clima di euforia per la raggiunta unità nazionale.
In questo estremo lembo isolano tutto, però, procedeva immutato come da secoli, tranne le cartoline-precetto per il servizio militare di leva che fioccavano uniformemente su tutto il territorio della nuova Nazione.
Fra gli abitanti del luogo tale evento era vissuto con mugugni da parte degli anziani che vedevano sottratte preziose braccia al lavoro dei campi ed alla pesca; i giovani, per contro, vedevano in esso l’occasione, forse unica nella vita, per varcare il confine del proprio paesello. Era una scadenza importante, da essa (prima o dopo) si datavano i fatti principali del periodo e quanto successo avrebbe costituito argomento di conversazione per il resto della vita.
In ossequio ad una di queste cartoline, Currau (Corrado), figlio di un piccolo proprietario di Pachino, dopo tre giorni passati su una tradotta ansimante, in un vagone attrezzato con panche di legno e lume a petrolio per la sera, giunse in Toscana; fu lì che conobbe Grazia, figlia di un conterraneo che aveva varcato lo stretto al seguito di Garibaldi ed aveva poi proseguito verso il Nord in cerca di fortuna.
Era una ragazza belloccia, spontanea e sorridente, incuriosita da quel giovane aitante che si sforzava di esprimere i suoi pensieri con un linguaggio vagamente somigliante all’italiano.
A Currau non sembrava vero poter conversare con una bella continentale che per giunta mostrava un qualche interesse per lui.
Seguendo i canoni del tempo, cominciò col corteggiare il padre di lei rispolverando le possibili comuni conoscenze di persone e di luoghi, fino al tentativo di trovare un qualche antenato comune.
Non trascurò nemmeno di far diventare vigneti il pezzetto di terra che nelle annate fortunate permetteva di riempire di buon vino la botte da quaranta salme che il padre custodiva religiosamente al piano terra della loro abitazione; la fantasia andava forse ai feudi dall’illustre concittadino che aveva dato loro quel terreno in enfiteusi: il marchese Antonio Starrabba di Rudinì, primo ministro del re Umberto I e pronipote dei fratelli Starrabba, Gaetano principe di Giardinelli e Vincenzo marchese di Rudinì, che avevano fondato Pachino poco più di un secolo prima, nel 1760.
Le poche dozzine di pecore che quotidianamente conduceva al pascolo divennero un allevamento di bestiame.
La casa divenne un palazzo, forse per la vicinanza con quelli nobiliari che sorgevano attorno alla piazza Scibini, da poco ribattezzata piazza Vittorio Emanuele.
La casetta di campagna abitata nel periodo estivo, i cui ruderi sono ancora visibili sulla destra, divenne una villa al mare.
L’idea di potersi presentare fra i suoi amici con una bella mogliettina venuta dal Continente metteva in moto la sua fantasia e attivava una certa intraprendenza.
Fu così che donna Grazia approdò in questo luogo incantevole, anche se assolato e selvaggio.
L’impatto la lasciò perplessa.
Come prima cosa dovette ridimensionare l’entità dei beni patrimoniali immaginati, ma giustificò il malinteso attribuendo le inesattezze alle difficoltà di espressione dell’innamorato.
Il paese le apparve abitato da soli uomini e le poche donne che si vedevano per le strade erano rigorosamente anziane, vestite di nero e col capo coperto da uno scialle. L’unica possibilità di vedere coetanee era la domenica alla messa delle dieci o aspettare il periodo della vendemmia quando sciamavano per le campagne al seguito dei rispettivi padri o mariti.
Imparò a filare il cotone e sopraggiunta l’estate si trasferì nella casetta in campagna, confortevole anche se non era proprio una villa; vi si arrivava attraverso una mulattiera che da Pachino conduceva a Morghella e proseguiva a Nord verso Marzamemi e a Sud verso il sobborgo di Portopalo.
Oltre il marito e qualche familiare che di tanto in tanto veniva a trovarli, raramente e solo in lontananza si vedevano altri esseri umani.
Grazia era affascinata dalla bellezza primitiva di questi luoghi e dal mare azzurro di cui suo padre le aveva tanto parlato fin da quando era bambina. Spesso si spingeva fino alla spiaggia e avrebbe voluto immergersi in acqua per trovare un po’ di refrigerio nella calura estiva, ma l’idea che qualcuno, sia pure in lontananza, potesse vederla le faceva allontanare il pensiero.
In una delle passeggiate si spinse fino queste rocce per osservare il recinto per le pecore (ancora visibile) che il suocero aveva costruito all’estremità di un’insenatura, al riparo dal vento e dalle intemperie invernali.
Si soffermò a lungo a guardare quella lingua di mare che si insinuava fra le rocce: le appariva un posto del tutto protetto e al riparo di qualsiasi sguardo indiscreto.
Con circospezione vi scese facendosi strada tra dirupi ed arbusti, si guardò ancora attorno, poi si tolse la camicetta e la gonna, li ripiegò con cura in un luogo sicuro e con la sottoveste lunga fino ai piedi si immerse nell’acqua cristallina.
Tornando sulla spiaggia si distese sollevando di tanto in tanto il camicione bagnato per fare asciugare anche le gambe e prendere un po’ di sole.
Quella pausa di frescura la rinfrancò e per tutto il periodo estivo, ad una certa ora, si avviava verso il mare, proprio in questa insenatura.
Un bel giorno un ragazzotto del luogo, inseguendo una capra, si spinse fin sopra la prominenza opposta, districandosi tra rovi e scupazzi (palme nane). Con stupore sbirciò la scena insolita: si tirò indietro per non essere visto, trattenne il respiro, strabuzzò gli occhi, li stropicciò per essere sicuro che non fosse un sogno e rimase immobile come una delle tante rocce che lo circondavano, intento ad osservare quello spettacolo per lui sconvolgente.
Oggi, abituati a vedere cosce di tutte le fogge e vasti assortimenti di ombelichi, potremmo anche sorridere, ma un secolo fa il fortunato che si imbatteva in una simile avventura aveva di che vantarsi.
Ne parlò in segreto con amici fidati e fu un passa-parola; convennero che si trattava della bella continentale di cui tutti in paese parlavano ma che pochi di loro avevano avuto la fortuna di vedere.
Nei giorni seguenti organizzarono spedizioni furtive sussurrando fra loro la parola d’ordine: Jimmu a vidiri i cosci ’i donna Grazia.
È passato oltre un secolo e i fatti connessi con l’origine del nome per la maggior parte della gente sono andati perduti, ma fra gli abitanti della zona questo luogo continua ad essere chiamato i cosci ’i donna Grazia.
Luigi Minio
(Psicologo psicoterapeuta)
a quanti condividono il suo amore per questi luoghi
Pachino - L’Eremo contrada Volpiglia s. n. (i Cosci ’i donna Grazia).
Strada provinciale Portopalo – Marzamemi a 900 metri da Morghella.
(roulotte parcheggiata)
Catania – Via Alberto Mario 32 – Tel. 095 21 62 113 - cell. 320 49 46 150
Fin qui la cronaca dei fatti connessi col nome che è stato tramandato.
I ragazzotti del luogo sbavavano dietro a dettagli anatomici femminili,
donna Grazia era affascinata dal mare.
A chi ama la natura e il bello altri aspetti, anche se meno appariscenti,
non possono sfuggire:
sono la flora spontanea del luogo e la vita che attorno ad essa brulica.
Zafferano (Crocus longiflorus)
Giglio di mare (Pancratium maritimum)
Scorzonera zuccherina (Scorzonera deliziosa)
Asfodelo mediterraneo (Asphodelus aestivus) – Nome dialettale: Purrazzu
Crespino, Cicerbita (Sonchus oleraceus) - Nome dialettale: Cardedda
Cocomero asinino (Ecballium elaterium )
Aloe (Aloe arborescens)
Cappero (Capparis spinosa)
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Fico d’India (Opunzia ficus indica)
Orobanche - Nome dialettale: Lupa
Ferula (Ferula communis) - Nome dialettale:Ferra
Malva selvatica (Malva sylvestris) - Nome dialettale: Panuzzu
Iris bulboso (Iris planifolia)
Timo arbustivo (Thymus capitatus) - Nome dialettale: Satarella
Cardo asinino (Onopordum illyricum)
Mandragola (Mandragora autumnalis)
Arìsaro comune (Arisarum vulgare) - Nome dialettale: Oricchia ’i vecchia
Comune di Pachino, contrada Volpiglia - Strada provinciale 84 - Portopalo Marzamemi .
A 800 metri dall’innesto della strada da Pachino (Morghella), in direzione Marzamemi.
A 2000 metri dal molo del porto di Marzamemi, in direzione Portopalo.